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menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

martedì 29 dicembre 2015

Barbara Kirshenblatt Gimblett: Patrimonio immateriale come produzione metaculturale


Patrimonio immateriale come produzione metaculturale (i),di Barbara Kirshenblatt Gimblett

Patrimonio immateriale




Dalla seconda guerra mondiale in poi, l’Unesco ha sostenuto una serie di iniziative sul tema del patrimonio universale, partendo sul versante del patrimonio materiale (tangibile), sia mobile che immobile ed includendo il patrimonio naturale e, più recentemente, il patrimonio immaterialeii. Sebbene vi siano tra distinte liste di beni patrimonializzati, si è fatta strada una crescente consapevolezza dell’arbitrarietà delle categorie e delle loro interrelazioni. Il patrimonio materiale è stato definito come “un monumento, un insieme,e di edifici o un sito di valore storico, estetico, archeologico, scientifico etnologico ed antropologico”, e comprende luoghi come Angkor Wat, un esteso complesso di templi nei pressi del villaggio cambogiano di Siem Reap; Robin Island, il carcere di Città del Capo dove Nelson Mandela fu tenuto rinchiuso per la gran parte dei suoi 26 anni di prigionia; Teotihuacan, la antica città di piramidi situata a poca distanza da Città del Messico, e la miniera di sale di Wieliscska, non lontana da Cracovia, che è stata oggetto di sfruttamento minerario fin dal 13° secolo.

Il patrimonio naturale, invece, è definito come l’insieme di “tratti geologici, biologici, fisici, di eccezionale livello, habitats botanici minacciati o specie animali ed area di valore dal punto di vista scientifico o estetico o in prospettiva di tutela e di conservazione. Il patrimonio naturale include quindi luoghi come il Mar Rosso, il Mount kenia National Parck, il Grand Canyon e, più recentemente, l’area della grande Amazzonia nel Brasile centraleiii. In un primo tempo per ambienti naturali si intendevano luoghi che di particolare bellezza o per altre qualità, fossero rimasti intatti e non contaminati dalla presenza umana, e quindi pertinenti la natura selvaggia, ma perlopiù i luoghi che sono stati poi inclusi nelle liste – come del resto anche accade in tutto il mondo- risultano essere stati plasmati o condizionati in qualche modo dall’uomo, comprendere e accettare questo dato ha di fatto cambiato il modo in cui l’UNESCO concepisce il patrimonio ambientale e naturale.

Allo stesso tempo, il patrimonio naturale, concepito nei termini dell’ecologia, dell’ambiente, di un approccio sistemico ad una entità vivente, ha fornito un modello per pensare al patrimonio immateriale come ad una totalità, invece che come ad un inventario, e per calcolare il valore immateriale di un sistema vivente, fosse esso naturale o culturale.

Per diversi decenni si è cercato di definire il patrimonio immateriale, prima e talvolta definito folklore, e un cambiamento significativo si è avuto quando il concetto di patrimonio immateriale si è allargato fino a includere, in aggiunta ai “masterpieces” i capolavori” anche i “masters”, i loro produttori. Il modello del folklore aveva sostenuto gli studiosi e le istituzioni nello sforzo di documentare e preservare le testimonianze di una tradizione in via di scomparsa.

Il modello successivo cerca, invece, di sostenere una tradizione vivente, se a rischio, determinando le condizioni per la sua riproduzione culturale. Ciò implica che si riconosca il dovuto valore ai portatori della tradizione ed ai suoi depositari così come ai loro habitus ed ai loro habitat. Di modo ché, al pari del patrimonio materiale, quello immateriale è cultura, e al pari di quello naturale, è un insieme vivente. Il compito che ne risulta, perciò, è quello di sostenere un intero sistema in quanto entità vivente, e non si limita al collezionamento di “artefatti di natura immateriale”.

Lo sforzo dell’Unesco di dotarsi di uno strumento per proteggere ciò che oggi si chiama patrimonio immateriale risale al 1952. Una prima politica di salvaguardia del folklore, centrata su strumenti e concetti legali, quali proprietà intellettuale, copyright, marchio e certificazione, non ebbe successo. Il folklore per definizione non è un creazione individuale: esso consiste di versioni e varianti, e non contiene una forma unica, originale e legittima; il folklore si produce generalmente nel corso di performances ed è oggetto di trasmissione orale, attraverso le pratiche, per esempio, più che tramite forme oggettivate e tangibili (penso alle scritture, alle annotazioni, ai disegni, alle fotografie, alle registrazioni)iv. Per tutti gli anni ’80 le misure legali furono distinte da quelle miranti alla conservazione, e nel 1989 la conferenza generale dell’Unesco, adottò la “Recommendation” per la Salvaguardia della cultura tradizionale e del folklorev. E’ datato al 16 maggio 2001, il rapporto sullo “Studio preliminare sull’opportunità di regolamentare sul piano internazionale, tramite strumenti aggiornati a nuovi standard, la protezione della cultura tradizionale e del folklore”, e questo rapporto spostava i termini fissati dal documento del 1989. In primo luogo al posto dell’enfasi sul ruolo dei folkloristi professionali e delle istituzioni nel documentare e tutelare i documenti delle tradizioni in via di scomparsa, il documento pone la priorità del sostegno alle tradizioni in sé, tramite quello dato ai loro praticanti. Ciò comporta un passaggio dagli artefatti (racconti, canzoni, usanze) alle persone (narratori ed interpreti, artigiani, curatori), le loro conoscenze e le loro abilità. Sotto la spinta dell’approccio al patrimonio naturale come insieme di sistemi viventi, e del concetto di Tesori nazionali viventi, che in Giappone, fin dal 1950, ottenne un vero e proprio status legale, il documento del 2001 riconosceva l’importanza di ampliare l’obiettivo della politica di creazione del patrimonio immateriale e delle misure volte ala sua tutela. La continuità del patrimonio immateriale avrebbe quindi richiesto attenzione, più che ai prodotti, alle persone, così come ai loro habitus ed ai loro habitat, da individuare nei loro modi di vita e nei loro mondi sociali.

Secondo la definizione dell’Unesco, il patrimonio immateriale è costituito da” tutte le forme della cultura tradizionale popolare e folklorica, ovvero: attività collettive che si producono entro una comunità data e fondate sulla tradizione. Queste creazioni sono tramandate oralmente o attraverso l’esempio gestuale, e si modificano, nel corso del tempo, per via di un processo di rigenerazione collettiva. Vi si includono le tradizioni orali, le usanze, il linguaggio, la musica, la danza, i rituali, e feste, le tradizioni mediche e farmacologiche, le arti gastronomiche ed ogni genere di abilità specifiche connesse all’aspetto materiale della cultura, quali ad esempio le strumentazioni tecniche e gli habitatvi.

La definizione fu poi ulteriormente precisata, poi, con l’incontro di Torino, nel marzo del 2001: i processi di conoscenza delle persone insieme alle conoscenze, abilità e alla creatività che li informano e che da essi vengono sviluppate, i prodotti che vengono creati e le risorse, gli spazi, e gli altri aspetti del contesto sociale e naturale necessari alla loro sostenibilità; questi processi offrono alle comunità viventi un senso di continuità con le generazioni precedenti e sono fondamentali per la identità culturale tanto quanto per la salvaguardia della diversità culturale e della creatività umanavii.

Questo approccio olistico alla definizione del patrimonio immateriale è accompagnato da una definizione che assume la forma di un inventario, eredità degli sforzi fatti in precedenza di definire la tradizione orale ed il foklore: La totalità delle creazioni su base tradizionale di una comunità culturale, espressa da un gruppo di persone e riconosciuto come specchio delle aspettative di una comunità in quanto esse ne rispecchiano l’identità culturale e sociale; i suoi standards e valori sono trasmessi oralmente, per imitazione o per altri mezzi. Le sue forme sono, tra le altre, lingua, letteratura, musica, danza, gioco, mitologia, rituali, usanze, artefatto, architettura ed altre artiviii

Altrove, nella Implementation Guide annessa, termini quali ‘tradizionale’, ‘popolare’ e folk’ collocano il patrimonio orale e immateriale all’interno di una implicita gerarchia culturale, che si estrinseca nella spiegazione di due domane: ‘perché e per chi?’: ‘Per molte popolazioni (in particolare minoranze gruppi indigeni) il patrimonio immateriale è una fonte vitale di identità che è radicata profondamente nella propria storiaix .



Neologismi quali “First Peoples” (invece di Terzo mondo) e Les Arts Premiers (invece di Arte primitiva) cooperano a preservare la nozione di una gerarchia culturale, proprio grazie al rimaneggiamento terminologico dell’ordine dato, come si può chiaramente vedere nella riorganizzazione dei musei parigini, a partire dalla dissoluzione del Musée des Arts Africains et Océaniens e del Musée de Arts et Traditions Populaires, fino alla redistribuzione delle collezioni del Musée de l’Homme ed alla creazione di due nuovi musei, il Museo del Quai Branly, dedicato alle “arti e alle civiltà di Africa, Asia, Oceania e America”, a Parigi, e il Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo, a Marsigliax Dall’aprile 2000, una selezione delle collezioni africano-oceaniano-americane, che finiranno poi nel Musée du Quai Branly, sono ospitate, per la prima volta, in una sala del Louvre, che è così diventata la sala delle prime artixi. La presenza di questi lavori al Louvre è da interpretare come la risposta, a lungo attesa,alla domanda che si pose nel 1920 il critico d’arte Felix Fénéon, “Andranno mai al Louvre?”xii.

Gli sviluppi a livello nazionale sono coerenti con gli sforzi compiuti dall’Unesco per mobilitare gli attori responsabili entro i singoli stati, “a prendere le misure necessarie per a salvaguardia del patrimonio culturale immateriale presente nei rispettivi territori”xiii. Queste misure rivelano la divaricazione tra la tutela professionalizzata del patrimonio e il patrimonio che deve essere tutelato. Per quanto molte di queste misure siano rivolte a salvaguardare qualcosa che esiste già, il loro impatto più evidente sta nel costruire la capacità di dare vita a qualcosa di nuovo, includendo in ciò un concetto di patrimonio che ha ottenuto un consenso internazionale, inventari di beni culturali, politiche culturali, proliferazione di archivi e di documentazione, istituti di ricerca, eccetera. In sintesi, la pratica della tutela richiede delle abilità altamente specializzate che si situano ad un ordine del tutto differente da quello delle competenze, ad analogo livello di specialismo, richieste per le effettive esecuzioni del Kutiyattam o del Bunraku o dei canti polifonici georgiani. Il ruolo dell’Unesco, quindi, è quello di fornire delle leadership e delle linee di condotta, di dare vita ad accordi internazionali e a iniziative di cooperazione, mobilitando esperti e rappresentanti nazionali, e di estendere la propria autorità morale a tutela del consenso che queste figure raccolgono attorno all’impresa della tutela, durante lunghi procedimenti di delibere, compromessi e rapporti conclusivi. Questo procedimento dà vita, quindi, ad accordi, raccomandazioni, risoluzioni e provvedimenti.


I convenuti, le convenzioni ed i proclami, invocano diritti e obblighi, sfornano protocolli, propongono normative e strumenti multilaterali, e chiedono l’istituzione di comitati. I comitati debbono a loro volta guidare, produrre raccomandazioni, chiedere maggiori investimenti, esaminare richieste per l’inscrizione in apposite liste o per l’inclusione in proposte progettuale, nel quadro della cooperazione internazionale. Le raccomandazioni debbono essere implementate sia a livello nazionale che internazionale. Agli stati incombe il compito di definire ed identificare il quadro culturale nel territorio di competenza, tramite l’elaborazione di inventari; debbono dare vita a mirate politiche culturali ed anche ad organismi amministrativi che diano loro effettivo seguito. Debbono istituire istituzioni che supportino le attività di documentazione dei patrimoni culturali, che cerchino di individuare le migliori modalità della loro salvaguardia e, allo stesso tempo, che formino professionisti del management del patrimonio culturale. Ad esse spetta,infine, il compito di promuovere la consapevolezza, il dialogo ed il rispetto tramite specifici strumenti di valorizzazione culturale, quale, appunto, la lista.



La lista



Nel maggio 2001, dopo un decennale dibattito circa la terminologia, gli obiettivi e le misure con cui intraprendere la salvaguardia di ciò che era stato identificato come “cultura tradizionale e folklore” e prima che il Report on the Preliminary Study on the Advisability of Regulating Intemationally, through a New Standard-setting Instrument, the Protection of Traditional Culture and Folhlore fosse presentato al consiglio esecutivo – l’Unesco dava l’annuncio definitivo del programma che avrebbe identificato i primi diciannove “Capolavori del patrimonio orale ed immateriale dell’umanità”xiv. Che tipo di lista ne deriva, e soprattutto perché dopo tutto ciò che era stato detto e fatto, dovesse essere proprio una lista il maggior risultato di decenni di conferenze, incontri, formulazioni, rapporti e raccomandazioni? Alcuni tra i protagonisti di questo lungo processo di sviluppo dell’iniziativa a tutela del patrimonio immateriale avevano sperato in un esito culturale e non meta-culturale: avrebbero preferito definire delle azioni di sostegno alle condizioni di riproduzione culturale dei patrimoni individuati, più che ridurre tutto alla creazione di un artefatto meta-culturale quale la lista.

James Early, il direttore del Cultural Heritage Policy istituito in seno allo Smithsonian's Center for Folklife and CulturaI Heritage, e Peter Seitel, co-cordinatore al progetto di una conferenza mondiale UNESCO/Smithsonian, documentarono il loro disappunto riguardo all’adozione del programma di tutela dei Capolavori dell’Umanità, come unica finalità istituzionale dell’Unesco, in una convention sul ICH (patrimonio culturale immateriale), che avrebbe dovuto offrirsi come uno strumento offerto ai ‘governi nazionali per proclamare la ricchezza dei rispettivi patrimoni culturali’ più che concentrarsi sugli effettivi portatori e depositari di tale culturaxv

Il bando per i progetti di intervento (Call for action) che emerse dalla conferenza tra lo Smithsonian e l’Unesco, nel 1999, sulla tutela delle culture tradizionali, specificava un ampio e dettagliato ventaglio di azioni che potevano essere intraprese con e per conto degli effettivi portatori delle tradizioni culturalixvi. Sebbene vi si riconoscesse l’importanza di sviluppare i sistemi culturali, il bando non si limitava a ciò, né raccomandava esplicitamente la creazione di una lista di capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità.

Ciascuna parola di questa formula è particolarmente marcata, ma anche la frase in sé suggerisce l’idea che il patrimonio esista, in quanto tale, e sia un presupposto- piuttosto che un effetto- per le definizioni da parte dell’Unesco, per la redazione delle liste e le conseguenti misure di tutela. Ho avuto modo di suggerire, altrove, che il patrimonio sia considerato come una modalità della produzione culturale che riconosce a forme culturali a rischio di scomparsa o passate di moda, una seconda possibilità di esistenza, in quanto esibizioni di se stessexvii. E in effetti uno dei criteri per la designazione di un capolavoro da tutelare tramite l’iscrizione della lista Unesco è proprio la sua vitalità: se è in ottima salute, non ha bisogno di tutela; se è quasi dileguato, la tutela non sarebbe più sufficiente.

Coerentemente con i criteri dichiarati, la lista dei primi diciannove capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità’ finirà per includere quindi comunità e manifestazioni culturali non presenti nell’altra lista, quella del patrimonio materiale, e comprenderà tradizioni orali, performances, linguaggio e modi di vita di gruppi indigeni e minoranzexviii.

Le risposte che ottenne la prima proclamazione di Capolavori del Patrimonio orale e immateriale dell’Umanità furono molto diversificata. In un articolo intitolato “La civiltà immateriale”, apparso su The Atlantic Monthly, Colleen Murphy, segnalando la campagna avviata da Alfonso Pecoraro Scanio per far riconoscere la pizza napoletana come capolavoro dell’umanità, dichiarò di trovare oppressiva la lista dell’Unesco: “è indiscutibilmente uno sforzo meritorio. Ma l’impressione complessiva è quella del sommario di un programma televisivo per la fascia delle 3 di notte’. Muprh avanzava, così, di sua iniziativa altre candidature per la lista del 2003, quali la bugia innocente (white lie), il fine settimana, la passive voice e via dicendoxix. Tali ironiche affermazioni puntavano a sottolineare il processo con cui la vita diviene patrimonio e ciò che è contemporaneous (ovvero ciò che nel presente viene valutato per il proprio contenuto di passato) diviene contemporary (ciò che, nel presente, si relaziona al proprio passato come ad un patrimonio)xx.

Mentre la bugia innocente, il fine settimana e la voce passiva non passeranno mai i test che selezionano i capolavori a rischio di scomparsa, questi commenti ci ricordano che si potrebbe dare il caso (non è ancora successo) per il patrimonio immateriale di ogni comunità, dal momento che non si dà comunità che non trasmetta la propria conoscenza incorporata attraverso la tradizione orale, la gestualità o l’esemplificazione. Dando vita ad uno speciale programma che recuperasse ciò che era sfuggito ai due precedenti programmi di patrimonio universale, l’Unesco ha creato un programma a sua volta selettivo (e non del tutto coerentemente con gli obiettivi dichiarati). Così il balletto del Bolscioi ed il Metropolitan Opera non fanno parte della lista, mentre vi è presente il Nogaku, che pure non è una forma culturale appartenente ad una minoranza o a un gruppo indigeno. Tutti e tre presentano un percorso di formazione, utilizzano testi scritti, sono il prodotto avanzato di culture allitterate e trasmettono un tipo di conoscenza incorporata da un esecutore all’altro. Per di più, il Giappone, già ben rappresentato anche nelle altre due liste di patrimonio universale, sta proteggendo il proprio teatro in qualità di patrimonio immateriale nazionale, sin dal 1957.

Ammettendo queste forme culturali associati alle tradizioni di corte, a santuari della cultura ampiamente nazionalizzati, ma in virtù della loro non appartenenza alla storia ed alla cultura europea, la lista preserva la distinzione tra Occidente e resto del mondo, e produce così un fantasmatico inventario del patrimonio immateriale, ovvero un elenco di ciò che non è indigeno, non riguarda le minoranze, non è non-occidentale, sebbene non sia per questo meno immaterialexxi.

La lista del patrimonio universale prende corpo da operazioni che trasformano alcuni selezionati aspetti di un patrimonio ereditato (descent) e localizzato, in un patrimonio trans-locale negoziato (consent), ovvero il patrimonio dell’umanità interaxxii. Mentre i singoli istituti culturali candidati a questo riconoscimento sono definiti in primo luogo delle tradizioni, ovvero definiti dalle modalità della loro trasmissione (orale, gestuale o per esemplificazione) – il patrimonio universale non lo è. In quanto totalità è sottoposto ad interventi del tutto estraneo a ciò che definisce i capolavori che vi confluiscono, in primo luogo. Il patrimonio universale è soprattutto e in definitiva una lista. Tutto ciò che è sulla lista, quale che sia il suo precedente contesto, è adesso ricollocato in una relazione con altri capolavori: la lista è il contesto principale di tutto ciò che vi finiscexxiii.

La lista è anche il mezzo più economica, più convenzionale e più efficace nel dare visibilità al fatto che “si fa qualcosa” – qualcosa di simbolico- in favore di comunità o di tradizioni neglette e marginali. Gesti simbolici, quali la redazione della lista conferiscono valore a ciò che vi viene incluso secondo il principio che non si può proteggere ciò cui non si attribuisce valore alcuno. L’Unesco ripone una grande fiducia –troppa, secondo alcuni tra coloro che hanno fatto l’esperienza dell’intero processo- sul fatto che la valorizzazione dia come esito la rivitalizzazionexxiv

Oltre alla conservazione della lista l’Unesco seleziona e adotta anche vari altri progetti e programmi di intervento, ‘tenendo in particolare considerazione le esigenze dei paesi in via di sviluppo’xxv. Tali progetti comprendono la produzione di documentazione, tanto come tutela di archivi già esistenti quanto campagne di registrazione di tradizioni orali; la creazione di istituti di ricerca e l’organizzazione di campagne scientifiche, l’organizzazione di conferenze, l’edizione di libri e altri prodotti audiovisivi, la creazione di programmi educativi, lo stimolo al turismo culturale, che include lo sviluppo di musei e di mostre, il restauro di siti, il disegno di mappe e strade tematizzate, e poi attività artistiche varie, quali festival e rassegne.

Il festival è senza dubbio la vetrina migliore per la presentazione al pubblico del patrimonio immateriale, ed il Festival dello Smithsonian Institute del 2002, dedicato alla Via della seta, è stato un primo esempio di attuazione pratica di questa politica.xxvi. Il festival del 2002 fu un vero e proprio atto di forza per la maniera in cui ruppe i modelli delle rappresentazioni nazionali, mettendo n scena delle espressioni culturali sub-nazionali, entro la cornice trans-nazionale dell’area di grande circolazione delimitata dalla rotta commerciale, malgrado questo i singoli gruppi di performer o di artigiani, continuarono a pensarsi come rappresentarsi delle rispettive nazioni di provenienza. L festival confuse, inoltre, le sommarie distinzioni tra contemporaneo e tradizionale, alto e basso, includendo il Tokyo Recycle Project, istituto che produce moda contemporanea riciclando abiti smessi forniti dai suoi stessi clienti, ed il Yo Yo Ma’s unique Silk Road Esemble, che sforna nuovi lavori su commissione.


Il successo del festival organizzato dallo Smithsonian Institute - e le conseguenti riflessioni critiche che il centro per la “Folklife and Cutural Heritage ha apportato al festival ed alle iniziative di contorno- hanno predisposto il Centro ad assumersi un ruolo dirigente nel dare forma all’iniziativa dell’Unesco circa il patrimonio immaterialexxvii. Il centro ha così cercato di smuovere l’istituzione dalla prospettiva del capolavoro, e di spingerla verso il sostegno delle comunità locali in maniera che queste ultime possano tutelare e rafforzare le pratiche di cui sono portatrici. Il centro, diretto da Richard Kurin dal 1987, ha aggiunto un significativo spessore teorico all’iniziativa. Il festival dello Stmithsonian è stato considerato esemplare e si è costituito come lo standard per le iniziative di presentazione del patrimonio, materiale ed immateriale, per restare entro il linguaggio dell’Unesco, entro i limiti propri di un festival in quanto forma meta-culturale.



Il patrimonio è metaculturale



Mentre la lista dei Capolavori del patrimonio orale e immateriale dell’umanità è letteralmente un testo, il festival dello Smithsonian ha avuto il merito di portare di fronte ad un pubblico reale degli artisti e degli esecutori in vivo, e così facendo ha messo in primissimo piano il fatto che è la capacità di azione (agency) di coloro che perpetuano le tradizioni a dover essere salvaguardata e tutelata. Al contrari di altre entità viventi, siano essi animali o piante, gli uomini e le donne non sono solamente oggetto di tutela culturale, ma sono anche soggetti. Non sono mai solamente portatori e trasmettitori di cultura (termini altrettanto poco felici quanto lo è quello di capolavori), sono invece agenti nella stessa iniziativa di patrimonializzazione. Questo dato relativo alla consapevolezza ed alla riflessività del soggetto, invece sembra mancare nel protocollo della patrimonializzazione Unesco . Vi si parla di creazione collettiva. Gli esecutori sono vettori, portatori e trasmettitori di tradizione, termini questi che connotano gli individui come mezzi di natura passiva, condotte o veicoli, senza riconoscere la volizione, l’intenzionalità, la soggettività.

“Archivio vivente” e “biblioteca2 sono due metafore molto diffuse.

In tali termini non si asseriscono i diritti di alcuni individui a fare ciò che fanno, ma piuttosto il loro individuale apporto alla trasmissione ed alla crescita culturale (a favore degli altri). Secondo tale modelli, a gente va e viene, ma la cultura resta, essendo trasmessa da una generazione all’altra. Ma ogni intervento di patrimonializzazione – così come le pressioni globalizzanti che si cerca di contrastare- cambiano le relazioni che le persone intrattengono con ciò che fanno. Esse modificano il modo in cui le persone comprendono e si spiegano la loro propria cultura e se stessi. Cambiano le condizioni fondamentali per la produzione e la riproduzione culturale.

E’ superfluo ricordare quanto il cambiamento sia intrinseco alla cultura, e che le misure che intendono preservarla, salvaguardarla e sostenere determinate pratiche culturali siano costrette a congelare le pratiche ed a indirizzarsi alla natura intrinsecamente processuale della cultura.



Un ruolo centrale nel determinare la natura metaculturale del patrimonio è svolto dal tempo. La mancanza di sincronia tra il patrimonio storico e l’orologio degli habitus, le differenti temporalità degli individui, delle cose, degli eventi, produce una tensione tra ciò che è oggi e di oggi, contemporaneo, e ciò che è oggi, ma di ieri, ovvero contemporary, come abbiamo già visto in precedenza; su questa base l’evanescenza si fondono con la sparizione, ed il paradosso – ma implicito a dire il vero nel fatto che il possesso di patrimonio sia il marchio della modernità- che sta alla base della possibilità stesse dell’impresa del patrimonio universale.



Gli interventi di patrimonializzazione tentano di rallentare il tasso di mutamento. Un giornale satirico statunitense, The Onion, a diffusione nazionale, ha recentemente pubblicato un articolo satirico intitolato”il Ministero per il Retro avverte: Potremmo esaurire il nostro passato”xxviii. L’articolo citava il ministro per il Retro, Anson Williams che dichiarava: “Se i livelli del consumo di passato negli Stati Uniti saranno libero di salire senza controllo, potremmo esaurire il nostro passato già nel 2005” e “Noi stiamo parlando di una situazione critica potenzialmente devastante, in cui la nostra società finirà per esprimere nostalgia verso eventi che dovranno ancora accadere”. A sostegno di queste predizioni l’articolo spiega che l’Ora del passato Nazionale al momento è fissata al 1990, un allarmante 74% più vicino al presente di dieci anni fa, quando la stessa Ora era ferma al 1969”. Man mano che l’Ora del passato aumenta la propria velocità, la vita diviene patrimonio quasi prima di dare la possibilità di esser vissuta, e il patrimonio riempie lo spazio della vita stessa.



Mentre le categorie del materiale e dell’immateriale, distinguono tra cose ed eventi (e così da conoscenza, abilità, valori, ecc...) persino le cose possono essere eventi.



Intanto, come è stato notato dal filosofo esistenzialista Stanley Eveling, “una cosa è un evento molto lento”. Questo è un dato di natura percettiva. La percezione del cambiamento è la funzione della relazione tra il tasso concreto di cambiamento e “le finestre” della consapevolezza che ne abbiamoxxix. Le cose sono eventi, non sostanza inerte o deperibile, anche in un altro senso. Una cosa può essere una “presenza affettiva”, nelle parole di Robert Plant Armstrongxxx.

In secondo luogo, più molte cose sono rinnovabili o rimpiazzabili a determinate e specifiche condizioni. Ogni venti anni il santuario ligneo di Ise Iingu, un tempio sacro in Giappone, viene ricostruito. Il processo si sviluppa per otto anni, ed il tempio è stato rinnovato per sessanta e una volta, da quando il tempio fu fondato, nel 690. Noto come "shikinen sengu," questa tradizione non coinvolge solamente la costruzione,, ma anche cerimonie e trasmissioni di conoscenza specializzata. “L’arte della falegnameria è sviluppata da circa cento uomini, la maggior parte dei quali sono falegnami del luogo che tralasciando le loro normali attività per un periodo che di solito oscilla dai due ai quattro anni. Non ci sono chiodi nell’intera struttura. Sebbene ci siano progetti, come per ogni struttura, i maestri carpentieri debbono apprendere e trasmettere a loro volta agli apprendisti la loro complessa esperienza su come far combaciare il sistema di giunti e giunture, usando attrezzi sia familiari che arcaicixxxi. Questo tempio rappresenta duemila anni di storia, ma non è mai più vecchio di venti anni”. Ise Jingu è un buon esempio di evento lento.



Anche i siti già patrimonializzati sono impegnati in un continuo e regolare processo di ricostruzione. Alla Plimoth Plantation, nei pressi di Boston, gli edifici vengono abbattuti e ricostruiti per far sì che l’orologio rimanga fermo alla data del 1627, quando quegli edifici avrebbero dovuto avere non più di sette anni. Dal momento che il sito è più vecchio dell’insediamento che deve rappresentare – la Plimoth Plantation ha circa trent’anni- la ri-costruzione è un modo per sincronizzare l’orologio del patrimonio con quello della storiaxxxii.

In terzo luogo, l’intangibilità e l’evanescenza –la condizione di ogni esperienza umana- non dovrebbero essere confuse con la sparizione. E’ questo un caso di malriposta fede nella concretezza, presa alla lettera. Le conversazioni sono intangibili ed evanescenti, ma ciò non le espone al fenomeno della scomparsa. Peggy Phelan, autrice del saggio, ormai un classico, sulla ontologia della performance, ha forgiato l’idea che “l’entità performance diviene tale grazie alla scomparsa”xxxiii. Su questo tema c’è ormai una considerevole letteratura, e molti dibattiti si sono prodotti sulla ontologia dell’arte ed, in particolare, della performance. Il filosofo Nelson Goodman distingue tra pittura e scultura, che sono autografiche (nel senso che coincidono il lavoro dell’artista e la sostanziazione materiale) e le performances (musicali, coreutiche, teatrali) che sono allografiche (il lavoro e la sua sostanziazione nella performance non sono univoci né simultanei). Potremmo dire con ciò che la lista del patrimonio materiale è rivolta a ciò che è autografico, e quella del patrimonio immateriale, a ciò che è allograficoxxxiv.

In quarto luogo, come ormai anche coloro che hanno dato vita alla politica di creazione del patrimonio universale hanno realizzato, la divisione tra patrimonio naturale, materiale e immateriale, e la creazione di liste separate per ciascun ambito, è arbitraria, sebbene non priva di una sua storia e di una sua logica.




Sempre di più coloro che lavorano alla salvaguardia del patrimonio naturale sempre più sostengono che la maggior parte dei siti elencati come patrimonio universale naturale sono ciò che sono oggi grazie alla interazione tra uomo e ambiente.

Analogamente, il patrimonio materiale, senza quello immateriale, è una buccia, o è materia inerte, sono oggetti ma non cose. Come accade per il patrimonio immateriale, anche quello materiale non è solamente incorporato, ma è altrettanto inseparabile dalle persone e dai loro mondi sociali e materiali. “L’Africa perde una biblioteca ogni qualvolta muore un anziano”, la citazione da Hampate Bà appare sulla pagina di apertura del sito web del programma Unesco di salvaguardia del patrimonio immaterialexxxv. Mentre valorizza la persona, la metafora della biblioteca confonde archivio e repertorio, azzerando una distinzione che è invece di particolare importanza per comprendere il patrimonio immateriale come conoscenza incorporata e come pratica.

Secondo Diana Taylor, il repertorio è sempre incorporato e si manifesta nella performance, nell’azione, nell’ambito del farexxxvi. Il repertorio si trasmette tramite la performance. Ciò è radicalmente diverso da quanto si compie registrando e preservando la documentazione nell’archivio. Il repertorio è relativo alla conoscenza incorporata ed alle relazioni sociali che presiedono alla sua creazione, alla sua realizzazione, alla sua trasmissione ed alla sua riproduzione. Ne consegue, secondo l’UNESCO, che il patrimonio immateriale è particolarmente vulnerabile proprio perché non ha dalla sua la materialità, sebbene la documentazione storica non necessariamente ne dà conferma. Eppure la situazione oggi è di diverso ordine. Gli aborigeni australiani hanno conservato il loro patrimonio immateriale per oltre 3000 anni senza l’aiuto di politiche culturali. Contrariamente al patrimonio materiale, protetto entro il museo, il patrimonio immateriale consiste di manifestazioni culturali (conoscenza, abilità, performance) che sono inestricabilmente legate alle persone. Non possibile- o almeno non è facile- trattare tali manifestazioni come surrogati o rappresentanze degli individui, nemmeno ricorrendo alle tecnologie di registrazione che possono separare la performance dai suoi effettivi realizzatori, e consegnare il conseguente repertorio agli archivi.





Mentre c’è ormai una estesa letteratura sull’industria del patrimonio, in buona parte attenta alle politiche della sua produzionexxxvii, minore attenzione è stata data all’intera impresa come un fenomeno meta-culturale in sé e per sé. L grande pressione a codificare le operazioni metaculturali, a dare vita a degli standards universali, mette in ombra lo specifico carattere da punto di vista sia storico che culturale, della politica e della pratica della parimonializzazione. Nel caso del patrimonio materiale, l’obiettivo è quello di restaurare un oggetto fino al recupero della sua condizione originaria, in maniera da onorare l’intenzione del suo artefice o dell’artista; presentare un oggetto nella sua perfezione pristina, riscattato dal tempo; trattare l’oggetto o il sito archeologico come un palinsesto, conservandone per quanto possibile le evidenze del processo storico, come accade nelle Hyde Park Barracks a Sydney, e nell’archeologia processuale; distinguere visivamente tra il materiale originale e quanto è stato fatto o aggiunto per conservare e restaurare l’oggetto e rendere visibile il restauro stesso, o infine rendere l’oggetto stesso sacrificabile e sostituibilexxxviii. Finché ci sono persone che sanno come ricostruire un tempio, non è necessario conservarne una singola dimostrazione, ma è invece importante che si tuteli la continuità della conoscenza e delle tecniche, oltre alle condizioni per la creazione di tali oggetti, così come accade nel caso del tempio giapponese di Ise Jingu, discusso sopra. La forma in tal caso persiste, mentre i materiali vengono integralmente sostituiti.

La politica di patrimonializzazione internazionale quale quella sviluppata dall’Unesco modella le politiche nazionali, come si può vedere nei recenti sforzi compiuti da Vietnam e dalla Repubblica Sudafricana, tra gli altri, di dare vita ad una strumentazione legale per la protezione dei rispettivi patrimoni culturali. C’è anche un movimento però nella opposta direzione. Il concetto di tesori nazionali viventi, che informa il programma di tutela del patrimonio immateriale dell’Unesco, fu sviluppato decenni prima in Giappone ed in Corea. Infine il possesso di un patrimonio – in opposizione al modo di vita che è salvaguardato del patrimonio- è uno strumento di modernizzazione e marchio della modernità, in particolare nella forma del museo: “Non avere neppure un museo nelle circostanze attuale è come ammettere di essere al di sotto del livello di civiltà che è richiesto ad ogni entità statuale.xxxix.

Mentre la persistenza nei modi di vita tradizionali poteva non essere economicamente dipendente, fino al punto di essere anche economicamente controproducente su questo piano con le logiche di sviluppo e con le ideologie nazionali, la valorizzazione di quei modi di vita in quanto patrimonio (l’integrazione del patrimonio nelle economie di turismo culturale) è economicamente non solo praticabile, ma anche coerente con le teorie dello sviluppo economico, e viene ad integrarsi nel paradigma delle ideologie nazionali della unicità culturale e della modernità. Fondamentale per questo processo è l’economia fondata sul patrimonio come economia moderna. Per questa, tra le altre ragioni, il patrimonio può ben essere preferito alla cultura pre-patrimonializzazione che esso stesso intende salvaguardare. E’ questo il caso del Centro di Cultura Polinesiana nelle Hawai'i, una iniziativa religiosa di mormoni, dove, dal 1963, gli studenti della Brigham Young University-Hawaii "tengono in vita e condividono il patrimonio della loro isola con i visitatori, mentre frequentano la loro università”.

Questi esempi riportano la nostra attenzione sulla complicata storia del patrimonio e dei musei come agenti di integrazione della deculturazione, in quanto sacrario finale delle evidenze del successo di un processo storico finalizzato al cambiamento, con particolare rilievo agli sforzi di tipo missionario e coloniale: si tutela (dentro il museo) ciò che è stato spazzato via (nel mondo sociale, nella comunità). La pratica museale, oggi, e gli interventi nell’ambito della tutela del patrimonio possono tentare di invertire questa tendenza storica, ben sapendo tuttavia che non c’è possibilità di ritorno indietro, ma solamente una via d’uscita di tipo metaculturale.




Note



i Questo testo è un estratto dal saggio World Heritage and Cultural Economics, nel volume Museum Frictions: Public Cultures/Global Transformations, curato da Ivan Karp and Corinne Kratz, insieme a contributi di Guslavo Buntinx. Barbara Kirshenblatt-Gimblett. Ciraj Rassool. Lynn Szwaja. and Tomàs Ybarra-Frausto. Duke University Press, 2006. Il testo è riprodotto con l’autorizzazione dei curatori. Il progetto è stato sostemuto dalla Rockefeller Foundation.

ii Tante storie sono state scritte a proposito delle iniziative dell’Unesco. Per un resoconto particolarmente fruttuoso, si veda Jan Tartinen, Globalising Heritage: on UNESCO. SCORE Rapportserie 12, 2000.


iii 'Delining our Heritage: http://www.uneseo.org/whclintro-en.hlm. Dale, 15/01/2003.


iv WIPO (The World Intellectual Property Organization) sta facendo molti sforzi per affrontare questi temi, così come alcune organizzazioni del Secretariat of Pacific Communities, a Noumea, Nuova Caledonia. Si veda il loro Regional Framework for the Protedion of Traditional Knowledge and Expressions of Culture. 2002
.

v 5 UNESCO, Raccomandazione per la salvaguardia della Culura tradizionale e del Folklore, adottata dalla Conferenza Generale nella sua veitncinquesima sessione, Parigi, 15 novembre 1989. Cfr.. http://www.uneseo.org/eulturellaws/ paris/hlml_eng/pagel.shlmV.

vi

6 UNESCO. Intangible Heritage, ultimo aggiornamento consultato:24 marzo 2003; http://www.unesco.org/culture/heritage/intangible/html_eng/index_en.shtml/. Questa formulazione è vicina a quella presente nella Raccomandazione del 1989, sulla Salvaguardia della Cultura tradizionale e del Folklore.


vii Citato in UNESCO. Report on the Preliminary Study on the Advisability of Regulating Intemationally. through a New Standard-setting Instrument. The Protection of Traditional Culture and Folklore. UNESCO, Executive Board. 161st Session. 161 EX/15. PARIS. 16 Maggio 2001. Punto 3.4.4 dell’ordine del giorno, paragrafo 26. Cfr. http:l/unesdoc.uneseo.org/ images/OOI2/001225/122585e.pdfl.


viii UNESCO. Racomandazione per la Salvaguardia.. op. cit.


ix Intangible Heritage, UNESCO. Cfr. http:l/mirrorus.uneseo.org/culture/heritage/intangible/html_ eng/index_ en .shtml/.

x
IO Cfr. Musée du Quai Branly, . http://www.quaibranly.frI?R=2 e, per il progetto del Musée des Civilisations de l’Europe et de la Méditerranée, cfr. http://www.musee-europemediterranee.org/projet.html/.


xi Si veda il kit predisposto per l’occasione, destinato alla stampa, “Inauguration du pavillon des Sessions. Palais du Louvre'. April 2000. Ministère de l'éducation Nationale. de la Recherche et de la Technologie. http://www.quaibranly.fr/IMG/pdf/doe640.pdf/.


xii Félix Fénéon et al, Iront-i/s au Louvre?, Enquéte sur des arts lointains , 1920, ristampato per le edizioni Toguna, Toulouse, 2000.


xiii Questo resoconto è basato sulla ultima bozza disponibile, alla data di questo mio scritto, della convenzione sul patrimonio immateriale, cui si rinvia: cfr. Consolidated Preliminary Draft Convention for the Safeguarding of Intangible Heritage, terza sessione del meeting intergovernativo di esperti sulla Bozza preliminare della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale, Parigi, Sede generale UNESCO, 2-4 giugno 2003


xiv Cfr. UNESCO (materiali per la stampa), Proclamation of Masterpieces of the Oral and Intangible Heitage of Humanity; in http://www.unesco.org/bpi/ intangible_heritage, e UNESCO, Proclamalion of Masterpieces of the Oral and Intangible Heritage of Humanity, 18 maggio 2001, in http://www. unesco.org/culture/heritage/intangi ble/masterp/html_eng/declar. Shtml/.


xv James Early e Peter Seitel, “UNESCO Meeting in Rio: Steps toward a Convention”, in Smithsonian Talk Story. n. 21, 2002, p.13.


xvi Peter Seitel, (a cura di) Safeguarding Traditional Cultures, A Global Assessment of the 1989 UNESCO Recommendation on the Safeguarding of Traditional Culture and Folklore, Washington. D.C., Center for Folklife and Cultural Heritage, Smithsonian Institution. 2001.


xvii Cfr. Barbara Kirshenblatt-Gimblett, Destination Museum' in Destination Culture, Tourism. Museums. and Heritage, pp.131-76, Berkeley, University of California Press, 1998.


xviii Cfr. Peter J. M. Nas. “Masterpieces of Oral and Intangible Culture, Reflections on the UNESCO World Heritage List”, Current Anthropology,vol. 43, n. 1, 2002, pp.139-48.


xix Cullen Murphy. “Immaterial Civilization”, The Atlantic Monthly vol. 288, n. 2, 2001, pp.20-22. This gesto ricorda l’ormai classico saggio di Horace Miner sui Riti del corpo presso la “popolazione” dei Nacirema (ovvero gli americani, come appare leggendone il nome al contrario), American Anthropologist. vol. 58, n. 3, 1956, pp. 503-7.


xx Sto adattando la distinzione proposta da Johannes Fabian in Time and the Other How Anthropology Makes its Object, New York, Columbia University Press, 1983, ed. italiana @@@@


xxi Buone intenzioni che danno vita a non volute distorsioni sono ricorrenti anche nelle pratiche di distribuzione di fondi per le attività artistiche negli Stati Uniti, dove una divisione tra i vari campi culturali fa sì che l’arte classica e contemporanea occidentale sia finanziata attraverso le divisioni che si occupano di Danza, Musica, Teatro, Opera, Musical, Letteratura e Design e Arte Visiva. Il National Endowment for the Arts convoglia tutto ciò che rimane nelle Arti Folkloriche o tradizionali o nelle Arti Multidisciplinari, che comprendono “attività interdisciplinari profondamente radicate nella tradizione o nelle forme del folklore che incorporano estetiche, temi o interpretazioni contemporanee”, (cfr. http://www.nea.gov/artforms/Multi/Multi2.html). Presso il New York State Council for the Arts (http://www.nysca.org), le distinzioni corrispondenti corrono tra le Folk Arts (“patrimonio culturale vivente delle arti folkloriche”)e i Servizi per le Arti Speciali che sostengono “attività artistiche professionistiche” di matrice e destinazione Afro-caraibica, Latino-ispanica, Asiatica e Pacifica.


xxii Sulla distinzione tra “descent” e “consent” si veda Werner Sollors, Beyond Ethnicity Consent and Descent in American Culture, New York, Oxford University Press, 1988.


xxiii Sulla lista come strumento di tutela e conservazione storica si veda Mark J. Schuster, Making a List and Checking It Twice, The List as a Tool of Historic Preservation, CPC [Cultural Policy Centre della University of Chicago] Working Paper, 14. 2002.


xxiv Questo è il linguaggio con cui si esprime la Bozza di convenzione, Consolidated Preliminary Draft Convention for the Safeguarding of Intangible Heritage, terza sessione della conferenza intergovernativa di esperti sulla Preliminary Draft Convention for the Safeguarding of Intangible Cultural Heritage, tenutasi a Parigi, Sede generale dell’UNESCO, 2-14 giugno 2003.


xxv Articolo 18. 1 della Consolidated Preliminary Draft Convention for the Safeguarding of Intangible Heritage.


xxvi Sul festival come museo di peformance dal vivo, si rinvia a Kirshenblatt­Gimblett, op. cit., pp.17-78.


xxvii Cfr. Richard Kurin, Reflections of a Culture Broker. A View from the Smithsonian, Washington D.C., Smithsonian Institution Press, 1997.


xxviii “U.S. Dept. of Retro Warns: 'We May Be Running out of Past”, The Onion, vol. 32, n. 14, 2000; http://www.theonion.com/onion3214/ usretro.html/.


xxix Doron Swade, “Virtual Objects: Threat or Salvation? Museums of Modern Science”. in Svante Lindqvist, Arika Hedin, and Ulf Larsson (curatori) Nobel Symposium, 112, pp.139-47, Canton. MA. Science History Publications/USA, 2000.


xxx Robert Plant Armstrong, The Powers of Presence, Consciousness. Myth. and Affecting Presence, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1981, e The Affecting Presence, an Essay in Humanistic Anthropology, Urbana, University of Illinois Press, 1971. Si vedano inoltre Alfred Gell, Art and Agency an Anthropological Theory, Oxford- New York, Oxford University Press, 1998; Robert Farris Thompson. African Art in Motion, Icon and Act in the Collection of Katherine Coryton White, Los Angeles, University of California Press, 1974 e David Freedberg, The Power of Images Studies in the History and Theory f{ Response, Chicago, University of Chicago Press, 1989.


xxxi Japan Atlas. Architecture, Jingu Shrine in Ise; cfr. http://www.jinjapan.org/ atlas/architecture/arcI4.html/.


xxxii Cfr. Barbara Kirshenblatt-Gimblett, 'Plimoth Plantation'. in Destination Culture, Tourism,op.cit.


xxxiii Peggy Phelan. “The Ontology of Performance: Representation without Reproduction”. in Unmarked, The Politics of Performance, pp.I46-66, New York, Routledge, 1993 ed anche e reazioni alle sue posizioni da parte di Philip Auslander, Liveness: Performance in a Mediatized Culture, London/New York, Routledge, 1999. Sulla convergenza tra 'art performance' e 'performance art’ si veda Noel Carroll, “Performance”, Formations, 3, 1, 1986, pp.63~1 ed anche Paul Schimmel e Kristine Stiles, Out of Action. Between Performance and the Object. 1949­1979, Los Angeles-New York, The Museum of Contemporary Art Thames/Hudson, 1998.
Per la documentazione come pratica artistica si veda Henry M Sayre, The Object of Performance. the American Avant-Garde Since 1970, Chicago, University of Chicago Press, 1989. Anche altri hanno indgato sulla relazione tra performance (e patrimonio immateriale) ed i media che ne consentono la registrazione, non solamente in quanto strumenti di documentazione, ma anche come pratica di natura artistica, elemento di catalisi della produzione culturale e base per la teorizzazione dell’oralità. Si veda Barbara Kirshenblatt-Gimblett, “Folklore's Crisis”, Joumal of American Folklore, vol. 111, n. 441, 1998, pp.281-327.


xxxiv Nelson Goodman, Languages of Art. An Approach to a Theory of Symbols, Indianapolis, Bobbs-Merrill, 1968. La posizione di Goodman è stata criticata e aggiornata in maniera da poterla applicare a fenomeni che egli non prese in considerazione, tra i quali le performances che non fanno uso di copioni o di testi scritti, e i media digitali che possono oltiplicare all’infinito gli originali. Si veda in proposito Joseph Margolis, “The Autographic Nature of the Dance”, Journal of Aesthetics and Art Criticism vol. 39, n. 4, 1981, pp.419-27; Mary Sirridge and Adina Arrnelagos, “The Role of ‘Natural Expressiveness’ in Explaining Dance”. Journal of Aesthetics and Art Criticism vol. 41, n. 3, pp.301-7; Adina Arrnelagos and Mary Sirridge, “The Identity Crisis in Dance” in Journal of Aesthetics and Art Criticism, vol. 37, n.2, 1978, pp.129-39; Rosalind E. Krauss, The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths, Cambridge, Mass., MIT Press, 1985.


xxxv Intangible Heritage. UNESCO, ; htlpd Imirror-us,unesco.orglculturel heritage/intangible/html_eng/index_ en .shtm V
.

xxxvi Cfr. Diana Taylor, Acts of Transfer, nel suo volume The Archive and the Repertoire: Performing Cultural Memory in the Americas, Durham, Duke University Press, 2003.


xxxvii Cfr. per esempio David Lowenthal, The Heritage Crusade and the Spoils of History, London/New York, Penguin Books, Viking, 1997 e Pierre Nora and Lawrence D. Kritzman (curatori), Realms of Memory: Rethinking the French Past, New York, Columbia University Press, 1996-1998.


xxxviii Si veda Mike Pearson. and Michael Shanks, Theatre/Archaeology Disciplinary Dialogues, London, Routledge, 2001.


xxxix Si veda Kenneth Hudson e Ann Nicholls, The Dictionary of Museums and Living Displays, New York, NY, Stockton Press, 1985.

 Barbara Kirshenblatt Gimblett, una antropologa di fama mondiale, è professore presso il Dipartimento di Performance Studies alla Tisch School of Arts di New York, dove insegna storia e teoria dei musei, esposizioni universali e turismo in collegamento con il programma di Museum Studies della Tisch School. Il suo lavoro, Destinazione cultura: turismo, musei e patrimonio (1998), esplora il museo come una formazione storica e come medium che emerge in relazione al mutamento del proprio ruolo entro la società. Barbara Kirshenblatt Gimblett è inoltre consulente presso molti musei, tra i più recenti dei quali si contano il United States Holocaust Memorial Museum ed il Museo della storia degli ebrei polacchi, di Varsavia.