menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

sabato 27 febbraio 2016

We will forget soon, i luoghi dell’Armata Rossa in Germania (By Federica Crociani)

We Will Forget Armata Rossa
La storia è ciclica. Ma forse la memoria può aiutare a non commettere gli stessi errori. Questo è stato forse, oltre alla passione e alla curiosità, il fuoco che ha spinto i due fotografi italiani, Stefano Corso e Dario Jacopo Laganà, a percorrere con la loro piccola auto rossa quasi 8.000 km in due anni e a scattare qualcosa come 10.000 foto nei circa 300 luoghi esplorati.
We will forget soon fotografia sala di lettura Lenin base sovietica
La sala di lettura “Lenin”, presente in ogni base sovietica


L’idea era quella di documentare la presenza dell’Armata Rossa in Germania, che nella seconda guerra mondiale fu incisiva nella lotta contro il nazismo e nella conseguente liberazione di Berlino. Il progetto si è concentrato nel documentare  la presenza della potenza militare russa nella Germania dell’Est andando a scovare i luoghi in cui, in maniera più o meno evidente, era visibile il passato.

We Will Forget Soon fotografia Sotterranei dellArmata Rossa Wünsdorf
Sotterranei del quartier generale dell’Armata Rossa a Wünsdorf

Il progetto, che ha preso il curioso ed emblematico nome di  We will forget soon, si è poi concretizzato in una mostra fotografica itinerante che, partita nel maggio 2015 dall’ex Germania dell’Est ed ospitata dalla Berlin Art Week, approderà a Prora nel corso del 2016 nella sua 6° tappa. Ad agosto è stato pubblicato anche un libro fotografico, presentato a Roma in Campidoglio il 30 settembre scorso.
We Will Forget Soon fotografia Armata Rossa
Lo svanire dei simboli della propaganda


Aree abbandonate dove la natura si è riappropriata dei suoi spazi e luoghi “recuperati” che hanno trovato un nuovo modo di essere utilizzati. È questo che ha colpito i visitatori della mostra itinerante e la loro sensibilità. Perché è spesso solo l’apertura mentale che aiuta a vedere basi militari in luoghi che non esistono più e complessi ospedalieri prussiani in strutture di riabilitazione neurologica. Federica Crociani

Albert Skira - Henri Matisse


Albert Skira - Henri Matisse:
una collaborazione molto florida, frutto di un'amicizia inossidabile

Henri Matisse è già sessantenne e un artista molto famoso quando Albert Skira gli chiede di collaborare con lui: le sue opere sono grandi capolavori, esposti nei musei più importanti di tutto il mondo e il giovane editore non può perdere un'occasione del genere!
Ciò che Albert chiede inizialmente all'artista è di illustrare le poesie di Stéphane Mallarmé. Matisse accetta di buon grado, già avvezzo al mondo delle illustrazioni per i libri d'arte: lo aveva fatto diverse volte, in particolare con il grande stampatore parigino Fernand Mourlot.
Così, nel 1932 esce il libro edito da Skira: 145 copie numerate di 29 acqueforti con immagini rarefatte.
"Per Albert Skira, che ha voluto questo libro". Henri Matisse, 1947
Negli anni, il rapporto tra Henri e Albert si consolida sempre di più, forte di una grande intesa e di una volontà a collaborare ancora. E in effetti si può dire che ci sia proprio Matisse alle spalle di tutte le iniziative editoriali dei primi anni di Skira: le stesure di Minotaure, le collane e i libri d'artista. 
Ma il progetto più ambizioso si può certo definire il Florilège des amours de Ronsard, stampato nel 1948, ma ideato ben sette anni prima.
Florilège des amours de Ronsard
Sono però un'immensa stima reciproca e un rapporto consolidato di amicizia a legare in maniera vera e forte Albert ed Henri, tanto da condividere l'avventura di una casa editrice durante un periodo di grande difficoltà, come quello tra le due Guerre Mondiali. 
Anche a Matisse, come a Picasso, Skira dedica uno dei primi volumi della collana Les Trèsors de la Peinture française. Il testo, firmato da Aragon, viene intitolato Matisse. Apologie du luxe.
Ritratto a carboncino di Albert Skira. Henri Matisse, 1948
Nel 1948, per il ventesimo anniversario di Skira, Albert decide di raccontare il suo percorso in un catalogo. La copertina viene affidata proprio all'amico di una vita Henri Matisse, che disegna una testa di donna, divenuta poi simbolo delle edizioni ginevrine.
Il disegno di Matisse per la copertina del catalogo generale di Skira del 1948
Per conoscere le pubblicazioni di Skira Editore dedicate a Henri Matisse clicca qui.

Italia digitale in stallo: penultimi nella UE per reti ultrabroadband

Il digitale in Italia non decolla secondo i dati del DESI 2016, l’indice europeo di digitalizzazione dell’economia e della società. Cresce l'eCommerce, ma la connettività è il nostro tallone d'Achille

di Paolo Anastasio | @PaoloAnastasio1 

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Il digitale in Italia non decolla e l’ennesima conferma del nostro ritardo arriva dal capitolo sul nostro paese del DESI (Digital Economy and Society Index 2016), l’indice sviluppato dalla Commissione Europea che misura il grado di diffusione del digitale nei paesi Ue, basato su cinque indicatori (Connettività, capitale umano, uso di Internet, integrazione di tecnologie digitali e servizi pubblici digitali). Il nostro paese a giugno 2015 si piazza al 25esimo posto, perdendo una posizione rispetto al 2014 con uno score di 0,4 rispetto alla media Ue a 28 di 0,52. La Danimarca, i Paesi Bassi, la Svezia e la Finlandia rimangono in testa alla classifica del DESI. I Paesi Bassi, l’Estonia, la Germania, Malta, l’Austria e il Portogallo sono i paesi che crescono più in fretta e stanno distanziando gli altri.
Il problema principale resta la scarsa copertura delle reti a banda larga veloce (NGA almeno 30 Mbps), tanto che siamo al 27esimo posto nella speciale classifica europea della connettività, con appena il 5,4% delle famiglie che ha un abbonamento Nga sul 53% di quelle abbonate. A livello europeo, il 71% delle famiglie ha accesso alla banda larga ad alta velocità (almeno 30 Mbit/sec) rispetto al 62% dell’anno scorso.

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Analisi impietosa: Italia 27esima per connettività

L’analisi è chiara e i numeri impietosi: “L’anno scorso l’Italia ha fatto piccoli progressi in quasi tutti gli indicatori, eccezion fatta per il giro d’affari dell’eCommerce nelle Pmi (8,2% del totale), per quanto l’economia italiana potrebbe trarre vantaggio da un uso più diffuso del commercio elettronico”.
La copertura delle reti a banda larga (Nga) nel 2015 è passata dal 36% delle abitazioni al 44%, ma i progressi sono ancora troppo lenti (siamo al 27esimo posto nella Ue), ostacolando anche la sottoscrizione di abbonamenti a banda larga veloce, pari ad appena il 5,4% del totale, che è limitato al 53% delle famiglie. Siamo sempre più lontano dagli obiettivi dell’Agenda Digitale europea (copertura a 30 mbps del 100% della popolazione e del 50% della popolazione a 100 mbps entro il 2020). Certo, il tira e molla sul piano banda ultralarga non aiuta e il 2015 è stato un anno in cui invece di accelerare con la posa della fibra si è perso tempo prezioso.
Opposto il quadro della banda larga mobile, con il 75% di abbonamenti per 100 abitanti (al 10° posto nella Ue). Insomma, si compensa con gli smartphone.

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Digital skill, il 31% degli utenti online non ha le basi

Secondo il DESI, la ragione principale di questo ritardo nell’adozione della banda larga fissa risiede nella carenza di skill digitali nella popolazione, con il 31% degli utenti online che mancano di competenze digitali di base.
Pesa nel nostro paese la scarsa scolarizzazione: soltanto il 42% della popolazione ha un titolo di studi superiore a quello della scuola di secondo grado. Senza dimenticare l’alta percentuale di anziani.
La percentuale di specialisti Ict è pari ad appena il 2,5% della popolazione.
Ed è per questo che il 37% della popolazione non usa Internet con regolarità.

PA digitale, soltanto il 18% degli utenti restituisce moduli online

Una buona performance registra la disponibilità di servizi digitali della PA, superiori alla media europea e per il quali ci troviamo al 17esimo posto, ma la percentuale di utenti che restituisce online i moduli compilati è ferma al 18%, ed è questo secondo il DESI il vero tallone d’Achille della PA digitale.
“Soltanto nel 37% dei casi le informazioni già in possesso della Pubblica Amministrazione vengono riutilizzate per riempire i moduli precompilati degli utenti”, precisa il DESI, secondo cui le autorità del nostro paese potrebbero fare di più per migliorare la “usability” dei servizi online.
Detto questo, il rapporto dice anche che l’Italia, pur arrancando sotto la media Ue, rientra in un drappello di paesi che stanno tentando di risalire la china e chiudere il gap digitale (‘catching up’), insieme a Croazia, Spazia, Lettonia, Romania, Slovenia e Spagna.
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Uso di Internet, Italiani fanalino di coda della Ue

Per quanto riguarda l’uso di Internet, gli italiani sono il fanalino di coda nella Ue. C’è una resistenza atavica verso l’uso della Rete per effettuare transazioni, interagire con gli altri e leggere le news. Soltanto sul fronte della fruizione di contenuti video siamo in linea con la media Ue.

eCommerce in crescita

Per quanto riguarda l’integrazione del digitale nel mondo business, siamo al 20esimo posto. Le nostre aziende non stanno facendo grossi progressi nell’adozione di soluzioni di eBusiness, ma il canale eCommerce sta guadagnando terreno, con il giro d’affari derivante da questo canale sul totale passato dal 4,9% del 2014 all’8,2% del 2015.
 [Leggere
http://www.agendadigitale.eu/egov/1368_come-uscire-dagli-ultimi-posti-nella-classifica-digitale-europea.htm






 Il quadro europeo del DESI 2016
  • I progressi ci sono ma sono lenti: l’Unione europea nel suo complesso ha un punteggio di 0,52 su 1, un miglioramento rispetto allo 0,5 dell’anno scorso. Tutti i paesi dell’UE tranne la Svezia hanno migliorato il loro punteggio. Lo scrive la Commissione in un comunicato, precisando che
  • La Danimarca, i Paesi Bassi, la Svezia e la Finlandia rimangono in testa alla classifica del DESI.
  • I Paesi Bassi, l’Estonia, la Germania, Malta, l’Austria e il Portogallo sono i paesi che crescono più in fretta e stanno distanziando gli altri. La strada per arrivare in cima alla classifica mondiale è ancora lunga: per la prima volta la Commissione ha raffrontato l’UE con alcuni paesi in testa alla classifica della digitalizzazione (Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud). Il testo integrale della relazione su un nuovo indice delle performance digitali sarà disponibile a metà marzo 2016, ma i risultati preliminari indicano già che i paesi ai primi posti nella graduatoria dell’UE sono anche fra i più digitalizzati al mondo. Ma l’UE nel suo complesso ha ancora molta strada da fare prima di diventare un leader mondiale.
  • La connettività è migliorata ma rimane insufficiente a lungo termine: il 71% delle famiglie europee ha accesso alla banda larga ad alta velocità (almeno 30 Mbit/sec) rispetto al 62% dell’anno scorso. L’UE è sulla buona strada per realizzare la copertura totale entro il 2020. Il numero di abbonati alla banda larga mobile è in rapido aumento: da 64 abbonamenti per 100 abitanti nel 2014 ai 75 attuali. L’UE deve essere pronta a soddisfare la domanda futura e a realizzare la prossima generazione di reti di comunicazione (5G). Per questo motivo entro la fine dell’anno la Commissione presenterà una revisione delle norme UE in materia di telecomunicazioni, per affrontare le sfide tecnologiche e del mercato.
  • Migliorare le competenze digitali: nonostante sia lievemente aumentato nell’UE il numero di laureati in discipline scientifiche e tecnologiche e in matematica, quasi la metà degli europei (il 45%) non possiede competenze digitali di base (uso della posta elettronica, strumenti di editing o installazione di nuovi dispositivi). La Commissione affronterà la questione delle competenze digitali e della formazione entro la fine dell’anno nell’ambito dell’agenda europea per le competenze, che sarà varata prossimamente.
  • Il commercio elettronico, un’occasione mancata per le piccole imprese: il 65% degli internauti europei effettua acquisti online, ma solo il 16% delle PMI vende sulla rete e meno della metà di queste ultime (il 7,5%) lo fa anche oltre frontiera. Per affrontare questo problema, a dicembre la Commissione ha presentato proposte sui contratti digitali per tutelare meglio i consumatori che fanno acquisti online e aiutare le imprese a espandere le loro vendite sulla rete. La Commissione intende presentare a maggio un pacchetto legislativo per stimolare ulteriormente il commercio elettronico. Il pacchetto conterrà misure per risolvere la questione dei geoblocchi ingiustificati, rafforzare la trasparenza dei mercati delle spedizioni transfrontaliere e migliorare l’applicazione delle norme UE di tutela dei consumatori a livello transfrontaliero.
  • Più servizi pubblici online, ma sottoutilizzati:gli indicatori mostrano che le amministrazioni pubbliche forniscono una gamma più ampia di servizi online (consentendo ai cittadini di utilizzare Internet per dichiarare un nuovo indirizzo di residenza, la nascita di un bambino e altri eventi importanti). Tuttavia il numero di utenti che interagiscono online con le amministrazioni pubbliche rimane stazionario (32%).

Era nuova

In quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” (come li definì John Reed) nell’ottobre-novembre del 1917 a Pietroburgo ha avuto inizio una nuova era: per la prima volta nella storia dell’umanità i lavoratori avevano conquistato il potere politico. Tutto era possibile in quel momento e da quel momento in avanti, in Russia come in tutto il mondo. Si poteva, non solo immaginare, ma finalmente lavorare per cambiare la vecchia società basata sull’individualismo egoista del capitalismo (come lo aveva definito Marx nel saggio fondamentale “Sulla questione ebraica”), in una nuova società basata sulla responsabilità collettiva, sulla solidarietà, sulla parità prima ancora che sull’eguaglianza. Il primo vagito, ancora immaturo e intempestivo, della Comune di Parigi del 1870 era diventato l’urlo dell’assalto al Palazzo d’Inverno. Un nuovo ordine sociale, del quale l’economia, intesa come rapporti di dominio del mondo del lavoro, era solo la punta emergente, stava per essere fondato con al centro la liberazione della persona umana. Nessun idealismo utopistico, nessuna religione aveva sino ad allora predicato, immaginato e osato tanto. Ma il marxismo-leninismo è una scienza e non un’ideologia e insegna che intanto i diritti si possono garantire, in quanto si rendono disponibili i mezzi per poterli concretamente esercitare. La Russia allora era un paese sterminato e arretrato, devastato da sei anni di guerra, seguiti da venti anni di preparazione all’inevitabile invasione militare capitalista, quaranta anni di accerchiamento e di guerra fredda, poi il collasso di una esperienza fallita. Ma per ogni fallimento subito, ci ha insegnato Honecker nella sua autodifesa, l’umanità non ha mai smesso di riprovare. Ma soprattutto le nuove ere, seppure identificano il loro inizio in una evento cronologicamente determinato, in realtà richiedono un lungo passaggio temporale prima di affermarsi e superare definitivamente l’era tramontata. Dalla rivoluzione d’ottobre sono trascorsi appena 100 anni, un tempo assai breve per concretizzare il cambiamento di un’era. L’era del capitalismo è chiaramente in crisi irreversibile, l’era del socialismo stenta ad affermarsi, ma progredisce inarrestabilmente. Il testimone lasciato dall’Unione Sovietica è stato raccolto dalla Cina, non è caduto e non si è perso.

Ma torniamo a quel momento straordinario della storia dell’umanità che solo la scienza dei secoli futuri (i posteri manzoniani) potrà compiutamente apprezzare nella sua dimensione rivoluzionaria. Accanto alle prime misure sulla nuova amministrazione dello Stato e dell’economia, il governo sovietico varò la prima legislazione sulla liberazione delle persone umane e prime fra tutte, delle donne. A guidare questa rivoluzione epocale fu una donna, Aleksandra Kollontaj che varò la prima legislazione sulla parità dei sessi fondata sulla rottura, più che sul superamento, dell’istituto borghese della famiglia monogama patriarcale, o meglio padronale. Rompere il concetto di proprietà che era insito nel matrimonio borghese, così come in tutte le relazioni economiche e sociali del capitalismo, era il passaggio necessario per rendere libero e dunque paritario anche il rapporto affetivo e sessuale uomo-donna. Il progetto della Kollontaj si scontrò con due opposte, ma parimenti infondate, interpretazioni. Da un lato la borghesia illuminata interpretò l’azione della rivoluzionaria russa come una mera trasposizione del femminismo già attivo nell’Inghilterra post vittoriana; dall’altro l’ignoranza della incultura religiosa tacciò la nuova libertà di relazioni paritarie sovietica come libero amore letto, ovviamente, nella versione più lasciva della repressione misogena, sul piano esclusivamente sessuale.
Ben altro era il messaggio di libertà nelle relazioni anche sessuali che prefigurava il nuovo ordine sociale sovietico e il saggio della Kollontaj che pubblichiamo nelle pagine seguenti (per estratto) ne da una approfondita esposizione. Aveva scritto Trotsky che la nuova cultura proletaria non sarebbe potuta nascere dall’attuale miseria e povertà solo in virtù di ordini amministrativi, occorreva la ricchezza e il benessere economico anche per produrre una nuova cultura; così anche per la liberazione della donna non fu sufficiente emanare direttive, occorrevano asili, scuole, ospedali, case, servizi sociali e posti di lavoro sufficienti e adeguati alla componente femminile della società socialista. Allora non fu possibile garantire i mezzi necessari per rendere effettivo e concreto il godimento di quei diritti, ancorché formalmente affermati e giuridicamente tutelati. L’Unione Sovietica, non per sua sola colpa, non è stata in grado di fornire in misura sufficiente quegli strumenti anche se furono fatti passi in avanti giganteschi. Basti pensare che già nel 1918 le donne sovietiche godevano degli stessi diritti degli uomini, con le ulteriori tutele della maternità anche sole, mentre in Italia le donne hanno avuto il diritto di voto solo nel 1946, decenni più tardi quello ereditario (per chi non lo ricorda esisteva l’istituto ereditario del solo usufrutto sul quarto vedovile), quello della pari potestà dei genitori sui figli, il divorzio, l’aborto e solo nel 1981 è stata soppressa la vergognosa attenuante del delitto d’onore (maschile ovviamente). Il saggio della Kollontaj che pubblichiamo mantiene oggi, in una situazione di vergognosa recrudescenza della incultura del predomino maschile che si fonda sul concetto borghese di proprietà privata, una indubbia attualità, ma anche un progetto per il futuro di una società migliore. Il testimone non è caduto. La Cina porta avanti il suo progetto di società armoniosa e, con il sogno cinese, rilancia gli ideali socialisti della solidarietà, dell’amicizia, del rispetto, creando le condizioni economiche di una società “mediamente benestante” che potrà concretamente garantire i mezzi necessari. L’Eros alato della società socialista sta rimettendo le sue piume.
Di Sandro Ridolfi
La questione femminile nell'Unione Sovietica degli anni Venti del XX secolo: il pensiero di Aleksandra Kollontaj; la questione vuene trattata nella Tesi di Caterina Saracco. Il lavoro si propone di studiare il concetto di famiglia e di femminilità così come era concepito negli anni '20 dell’ultimo secolo, focalizzando l’attenzione su una donna molto particolare, Aleksandra Kollontaj, che fu femminista e bolscevica e anche, verso la fine della sua vita pubblica, quasi un oppositore del regime stalinista. Dopo una breve panoramica sulla posizione della donna nella società e dell’istituto matrimoniale nella legislazione comunista, è stato tracciata la parabola umana e politica di Aleksandra Kollontaj, analizzando il suo pensiero sulla famiglia, sull’amore e sul matrimonio, con un’analisi del saggio Dorogu krylatomu Erosu! Pis’mo k trudjaščejsja molodёži (Largo all’Eros alato! Lettera alla gioventù lavoratrice), che si ritiene essere il suo manifesto nella lotta “di classe” tra i sessi.
Aleksandra Kollontaj (1871-1952) è stata la prima donna ministro della storia. Di lei aveva scritto Maxim Gorkij: ci sono solo due comunisti in Russia: uno è Lenin, l’altra è Aleksandra Kollontaj. A Lenin la Kollontaj rimase sempre strettamente legata con una tale reciproca attestazione di stima che già nella formazione del primo governo sovietico la valse la nomina a ministro all’assistenza sociale. Tale rapporto privilegiato non le impedì, tuttavia, di contestare ripetutamente, anche con forti manifestazioni di dissenso quali le dimissioni dalla carica di ministro, diverse decisioni: dalla pace di Brest-Litovst alla Nuova Politica Economica, ambedue fortemente volute da Lenin, fondando e guidando anche una corrente di opposizione all’interno del Partito Bolscevico, denominata “Opposizione Operaia”, che contestava la burocratizzazione dei dirigenti politici in favore di una presenza, anche manageriale nelle industrie, prevalentemente operaia. L’attività politica della Kollontaj si concentrò sull’organizzazione della componente femminile nel partito bolscevico e nel nuovo Stato sovietico e la creazione del sistema dell’assistenza sociale ai bambini e alle donne lavoratrici. In ragione di questo particolare impegno la letteratura politica occidentale ha attribuito alla Kollontaj l’attributo di “femminista nel cuore del soviet”. L’affermazione è non solo molto riduttiva rispetto alla assai più ampia dimensione della militanza politica della rivoluzionaria russa, ma è soprattutto errata e fuorviante. La liberazione delle donne rivendicata dalla Kollontaj andava, infatti, ben oltre il riconoscimento alle donne degli stessi (o quanto meno simili) diritti goduti dagli uomini, ma coinvolgeva una radicale revisione dei rapporti sociali, dei quali i rapporti uomo/donna erano una derivazione condizionata. La nuova società degli uguali prefigurata dalla rivoluzione comunista non si proponeva solo di equiparare sul piano giuridico le donne agli uomini, ma di stabilire un nuovo patto sociale fondato sulla equiparazione naturale dei due sessi e sulla loro essenziale complementarietà. La Kollontaj ha scritto numerosi saggi sul nuovo concetto di amore della società socialista e alcuni romanzi reperibili in internet in italiano.
L’amore da compagni
La nuova società dei lavoratori, la società comunista, è fondata sul principio della solidarietà. Ma cos’è la solidarietà? E’ la “coscienza” non solo della comunanza degli interessi, ma anche dei vincoli spirituali e morali intessuti tra gli appartenenti al collettivo. Una struttura sociale edificata sulla solidarietà e la cooperazione esige dalla società un «potenziale d’amore» notevolmente sviluppato: in altre parole, che le persone siano capaci di provare dei sentimenti di autentica simpatia. Senza di che, la solidarietà non può essere durevole. Per questo l’ideologia proletaria tenta di far nascere e rafforzare in ciascun membro della classe operaia sentimenti di partecipazione alle sofferenze e ai bisogni dei suoi compagni di classe, di comprensione delle altrui aspirazioni, di profonda coscienza dei suoi legami con gli altri appartenenti al collettivo. Tutti questi sentimenti di simpatia, di compassione, di rispetto, sgorgano da un’unica, comune sorgente: la facoltà di amare, non nel senso strettamente sessuale, ma nella larga accezione di questo termine. In quanto emozione (sentimento), l’amore costituisce un elemento di coesione, e quindi un elemento organizzatore. Che l’amore sia una grande forza di coesione, la borghesia ne è perfettamente cosciente, e ne tiene conto. Ecco perché l’ideologia borghese, allo scopo di consolidare la famiglia rese «l’amore coniugale» una virtù morale. Il proletariato, da parte sua, non può non tener conto del ruolo psico-sociale che l’amore, in senso lato o nel campo dei rapporti sessuali, può e deve svolgere per il rafforzamento dei vincoli, non coniugali e familiari, ma riguardanti lo sviluppo della solidarietà collettiva.


Qual è dunque l’ideale amoroso della classe operaia? Quali sono i sentimenti e le emozioni che l’ideologia proletaria pone alla base dei rapporti tra i sessi? Nelle varie fasi dello sviluppo economico e sociale, il contenuto della nozione di amore è mutato. Da fenomeno biologico, l’amore è divenuto un fattore psico-sociale. Sotto l’azione delle forze economiche e sociali, l’istinto biologico di riproduzione, che ha determinato i rapporti sessuali nei primi stadi dello sviluppo dell’umanità, ha subito due degenerazioni in direzioni diametralmente opposte. Da un lato, per uno scopo riproduttivo, sotto la spinta di rapporti socio-economici abnormi, e in particolare sotto il dominio del capitalismo, il normale istinto sessuale, la normale attrazione tra i sessi, sono degenerati in “malsana libidine”. Nella sua forma attuale, l’amore è uno stato d’animo estremamente complesso, che si è da molto tempo allontanato dalla sua primitiva fonte (l’istinto biologico di riproduzione) e spesso si trova perfino in netto contrasto con essa. L’amore è una sorta di conglomerato, un complesso insieme formato di passione, di amicizia, di tenerezza materna, d’inclinazione amorosa, di comunanza di spirito, di pietà, di ammirazione, di abitudine e di molte altre sfumature sentimentali ed emotive. Di fronte ad una simile complessità è sempre più problematico stabilire un nesso diretto tra voce della natura, “Eros senz’ali” (l’attrazione fisica dei sessi), e “Eros alato” (l’attrazione carnale mista a emozioni spirituali e morali). L’amore-amicizia, nel quale non v’è alcuna componente fisica, l’amore spirituale per una causa o un’idea, l’amore impersonale per la collettività: tutti questi fenomeni sono la testimonianza di quanto il “sentimento d’amore” si sia distaccato dalla sua base biologica, di quanto si sia «spiritualizzato». L’amore è divenuto multiforme e multicorde. Ciò che l’uomo d’oggi, nel quale le fasi della cultura hanno sviluppato e accentuato nel corso di molti millenni diverse sfumature di amore, prova nel campo delle emozioni amorose non può essere racchiuso in un termine, «amore», troppo generico, e quindi inesatto.
Sotto il dominio dell’ideologia borghese e del sistema di vita capitalistico-borghese la dicotomia dell’amore, del sentimento, è causa di sofferenze ineluttabili. Per millenni, una cultura fondata sull’istinto di proprietà ha inculcato negli uomini la convinzione che il sentimento d’amore aveva anch’esso come base il principio della proprietà. L’ideologia borghese ha messo in testa alla gente l’idea che l’amore, compreso l’amore reciproco, dava il diritto di possedere interamente e senza spartizioni il cuore dell’essere amato. Quest’ideale, questo esclusivismo nell’amore, derivava naturalmente dalla forma di unione coniugale stabilita e dall’ideale borghese di «amore totale ed esclusivo» tra gli sposi. L’essere esclusivi in amore, l’esigere «totalmente assorbiti» dall’amore, non può costituire l’ideale dei rapporti tra i sessi dal punto di vista dell’ideologia proletaria. Al contrario, lo scoprire che “Eros alato” è multiforme e multicorde non produce nel proletariato né orrore né indignazione, come avviene per l’ipocrita morale borghese. Al contrario il proletariato tenterà con tutte le sue forze di indirizzare questo fenomeno nella direzione corrispondente ai suoi compiti di classe in un dato momento della lotta, in un dato momento della costruzione della società comunista. Il fatto che l’amore sia multiforme non è, di per sé, in contraddizione con gli interessi del proletariato. Al contrario, esso facilita il trionfo di quell’ideale di amore nei rapporti tra i sessi che sta già prendendo forma e cristallizzandosi in seno alla classe operaia.
Si tratta precisamente dell’amore da compagni. L’ideale d’amore della classe operaia, che discende dalla cooperazione nel lavoro e dalla solidarietà di spirito e di volontà dei membri di questa classe, uomini e donne, si differenzia naturalmente, sia per la forma che per il contenuto, dalle nozioni dell’amore proprie alle altre epoche culturali. Ma cos’è l’amore da compagni? Significa forse che l’austera ideologia della classe operaia, elaborata nell’atmosfera arroventata delle lotte per la dittatura del proletariato, vorrà scacciare senza pietà il tenero e fremente “Eros alato” dai rapporti sessuali? Assolutamente no. Non solo l’ideologia della classe operaia non ha intenzione di abolire “Eros alato”, ma al contrario essa libera la strada al riconoscimento del valore dell’amore come forza psico-sociale. La morale ipocrita della cultura borghese ha strappato senza pietà le piume dalle ali multicolori e sgargianti di Eros, obbligandolo a frequentare unicamente le «coppie legittime». Al di fuori del matrimonio, l’ideologia borghese lascia posto unicamente ad un Eros senza piume e senza ali: l’unione sessuale momentanea, sotto forma di carezze comperate (prostituzione) o rubate (adulterio). La morale della classe operaia invece, nella misura in cui ha già iniziato a cristallizzarsi, trascura completamente la forma esteriore che possono assumere i rapporti d’amore tra i sessi. Per ciò che concerne gli obiettivi di classe del proletariato, è del tutto indifferente che l’amore assuma la forma di un’unione duratura e legalizzata o che si esprima semplicemente in una relazione passeggera.
La ideologia della classe operaia non impone alcun limite formale all’amore. Al contrario, fin da ora essa guarda soprattutto al contenuto dell’amore, delle sfumature sentimentali ed emozionali che uniscono i due sessi. E in questo senso, l’ideologia della classe operaia darà la caccia a “Eros senz’ali” (la concupiscenza, la soddisfazione carnale egoista per mezzo della prostituzione, la trasformazione dell’atto sessuale in scopo a se stante) molto più rigorosamente e spietatamente di quanto non facesse la morale borghese. “Eros senz’ali” è contrario agli interessi della classe operaia, è di solito basato sull’ineguaglianza dei diritti nei rapporti sessuali, sulla dipendenza della donna nei confronti dell’uomo, sulla fatuità e sulla rozzezza maschili, il che può unicamente frenare lo sviluppo del sentimento di solidarietà fra compagni. La presenza di “Eros alato” agisce esattamente in senso contrario.
Va da sé che alla base di “Eros alato” troviamo la medesima attrazione di un sesso per l’altro che in “Eros senz’ali”, ma la differenza è grande: nell’essere che ama un altro essere, si risvegliano e si manifestano proprio quei tratti dell’animo che sono indispensabili agli edificatori della nuova cultura: delicatezza, sensibilità desiderio di aiutare l’altro. L’ideologia borghese voleva che l’essere umano manifestasse queste qualità unicamente nei confronti dell’eletto, o l’eletta, del suo cuore, in altre parole nei confronti di un unico essere. Ciò che conta innanzitutto per l’ideologia proletaria, è che queste qualità siano risvegliate e sviluppate nell’essere umano, e che si manifestino non solo nei rapporti con l’eletto del cuore, ma anche nelle relazioni con tutti gli appartenenti alla collettività. Il riconoscimento, anche nell’amore, dei diritti reciproci, la capacità di tener conto della personalità dell’altro, un fermo e mutuo sostegno, una sollecitudine attenta e una reale comprensione di ciascuno per i bisogni dell’altro, congiunti alla comunanza degli interessi o delle aspirazioni: ecco l’ideale dell’amore da compagni che l’ideologia proletaria sta forgiando per sostituire il caduco ideale di amore coniugale «assorbente» ed «esclusivo» della cultura borghese. L’amore da compagni costituisce l’ideale di cui il proletariato ha bisogno nel periodo gravido di responsabilità e di difficoltà in cui lotta per fondare e consolidare la propria dittatura. Ma non v’è alcun dubbio che, quando la società comunista sarà divenuta una realtà, “Eros alato” si presenterà sotto un aspetto interamente rinnovato, completamente sconosciuto a tutti fino ad oggi. In quel momento, i «vincoli di simpatia» tra tutti i membri della nuova società si saranno sviluppati e consolidati, la «forma dell’amore» sarà molto più grande, e l’amore-solidarietà avrà un ruolo motore analogo a quello della concorrenza e dell’amor proprio nella società borghese. Il collettivismo dello spirito e della volontà riporterà la sua vittoria sulla fatuità individualista. La «fredda solitudine morale», alla quale le persone, nella società borghese, tentavano spesso di sfuggire attraverso l’amore e il matrimonio, sarà scomparsa; molteplici e svariati vincoli uniranno le persone in una vera comunanza spirituale e morale. I sentimenti degli uomini s’indirizzeranno verso lo sviluppo della coscienza sociale, mentre l’ineguaglianza tra i sessi, affondata nella memoria dei secoli passati, e ogni forma di dipendenza della donna dall’uomo saranno scomparsi senza lasciar traccia. In questa società nuova, collettivista sul piano spirituale ed emozionale, Eros occuperà, sullo sfondo di una gioiosa unità e fratellanza tra tutti i membri del collettivo, un posto d’onore, come sentimento destinato a decuplicare la gioia degli uomini. Quale sarà quest’Eros nuovo, trasfigurato? La più ardita immaginazione non saprebbe tracciarne il ritratto. Ma una cosa è chiara: maggiore sarà la solidarietà in seno all’umanità nuova, maggiore sarà la coesione morale in tutti i settori della vita, della creatività, delle relazioni umane, e minore sarà il posto per l’amore inteso nel senso attuale del termine.

Ma per il momento ci troviamo ancora in una fase di svolta tra due culture. Durante questo periodo di transizione, insieme alla lotta accanita dei due mondi su tutti i fronti, compreso quello ideologico, il proletariato ha interesse a favorire al più presto e con ogni mezzo l’accumulazione delle riserve di «sentimenti di simpatia». In questo periodo, l’ideale morale che determina i rapporti sentimentali non è il mero istinto sessuale, bensì una grande varietà di emozioni amorose e di solidarietà, tanto per gli uomini quanto per le donne. Per rispondere agli imperativi della nuova, nascente morale proletaria, queste condizioni devono essere fondate su tre principi basilari: 1. uguaglianza reciproca (nessuna predominanza maschile, né schiavitù e annullamento della personalità della donna nei rapporti d’amore); 2. riconoscimento reciproco dei diritti dell’altro, il che esclude la pretesa di possedere interamente il cuore e l’anima dell’altro (sentimento di proprietà creato e conservato dalla cultura borghese); 3. sollecitudine da compagni, attitudine ad ascoltare e comprendere i moti dell’animo dell’essere caro (la cultura borghese esigeva questa sollecitudine nell’amore unicamente da parte della donna). Pur proclamando i diritti di “Eros alato” (l’amore), l’ideologia della classe operaia subordina l’amore reciproco tra i membri della collettività ad un sentimento più imperioso: l’amore-dovere verso la collettività stessa. Per quanto grande sia l’amore che lega i due sessi, per quanto numerosi siano i legami di cuore e di spirito che intesse tra di loro, i vincoli dello stesso tipo con l’intera collettività debbono essere ancora più forti, più numerosi, più organici. La morale borghese esigeva: tutto per l’essere amato. La morale proletaria prescrive: tutto per il collettivo. Rigettando la «morale» borghese nel campo dei rapporti amorosi e coniugali, l’ideologia proletaria non può non forgiare a sua volta la propria morale di classe, le sue nuove regole nelle relazioni sessuali, meglio rispondenti agli interessi della classe operaia. Nella misura in cui si tratta dell’amore forgiato e sviluppato dalla cultura borghese, incontestabilmente il proletariato strapperà molte piume alle ali dell’Eros di formazione borghese. È chiaro che in luogo delle vecchie, l’ideologia della classe in ascesa saprà sistemare nuove piume sulle ali di Eros: e saranno piume di una forza, di una bellezza e di una lucentezza ancora mai viste. Se, nei rapporti d’amore, la passione cieca, assorbente, esigente, perde vigore, se il sentimento di proprietà e il desiderio egoista di vincolare a sé «per sempre» l’essere amato deperiscono, se la prepotenza maschile e la mostruosa rinuncia della donna al proprio io scompaiono, si assisterà allo sviluppo di altri preziosi aspetti dell’amore: il rafforzamento del rispetto della personalità dell’altro, la attitudine a prendere in considerazione i suoi diritti, lo sviluppo della comprensione reciproca, la crescita dell’aspirazione ad esprimere l’amore non solo con i baci e le carezze, ma anche con l’azione congiunta, con l’unità delle volontà, con la comune opera creativa. Il compito dell’ideologia proletaria non è quello di scacciare Eros dai rapporti sociali, ma solamente quello di riempire la sua faretra di frecce di nuova tempra, di educare il sentimento dell’amore tra i sessi nello spirito della nuova grande forza psichica: la solidarietà fra compagni.
di Aleksandra Kollontaj
 

giovedì 25 febbraio 2016

Interrogare il desiderio (By Wanda Tommasi)

Il tema del desiderio è sempre stato centrale nel femminismo, a partire dagli anni 1970: allora, il problema era quello di dare voce a un desiderio femminile che era stato tacitato o asservito nell’ordine socio-simbolico patriarcale e di trovare delle mediazioni per un desiderio di donne che, lungo la traiettoria dell’emancipazione, o andava nel mimetismo rispetto alle mete sociali maschili o ammutoliva, rifugiandosi nell’estraneità.
Come sottolinea Ida Dominijanni nell’introduzione a un testo che è cruciale per il mio discorso, La politica del desiderio di Lia Cigarini, dove prima c’erano grumi di vissuto femminile che sbarravano la strada al desiderio, si sono inventate delle pratiche che, sul modello liberamente interpretato della pratica psicanalitica, hanno trovato strumenti preziosi per scongelare il corpo e la parola, per liberare la sessualità femminile dalla sudditanza al maschio, e infine per superare le difficoltà di espressione di sé e il disordine nelle relazioni fra donne.[1]
   Con l’irruzione sulla scena della storia del “soggetto imprevisto”,[2] secondo la felice espressione di Carla Lonzi, si è realizzata anche la complicazione della sua razionalità con il desiderio e l’inconscio: constatata la debolezza del desiderio femminile, stretto fra le opposte opzioni, entrambe insoddisfacenti, dell’esclusione e dell’omologazione all’uomo, si sono cercate delle pratiche che aiutassero a liberare desiderio ed energie femminili e a metterle in circolo nel mondo.[3] Il problema messo a fuoco negli anni 1970 è che il desiderio femminile, che era muto o asservito all’uomo nell’ordine patriarcale, arretrava ancora, nonostante la libertà femminile recentemente guadagnata, di fronte a un ordine sociale avvertito come estraneo oppure mimava il desiderio maschile assumendone acriticamente gli oggetti. Rosi Braidotti ha definito giustamente il desiderio di donne a cui ha dato voce il femminismo come un desiderio ontologico,[4] cioè come un desiderio di essere e di esserci. In Italia, il femminismo della differenza sessuale ha sia messo a tema, a partire dagli anni 1970, l’intreccio di sessualità, desiderio e politica, sia ha interrogato l’enigmatica caduta del desiderio femminile di fronte agli oggetti sociali, di fronte al mondo.
   Quest’ultimo aspetto, però, nel corso del tempo, ha decisamente avuto la meglio rispetto al primo: se infatti, negli anni 1970, Carla Lonzi metteva al centro il nodo di sessualità e politica proponendo la figura della donna clitoridea, autonoma e consapevole del proprio desiderio, a differenza della donna vaginale, complementare all’uomo,[5] in seguito questo intreccio di sessualità e politica è andato sullo sfondo e ci si è concentrate piuttosto sulla debolezza del desiderio femminile di fronte alle mete sociali e politiche, di fronte al mondo.[6]
   E’ stato soprattutto in quest’ultima direzione che è stato tenuto vivo, nel pensiero e nelle pratiche della differenza sessuale, il tema del desiderio, interrogando l’enigmatica caduta del desiderio femminile rispetto al mondo. Le pratiche legate al pensiero della differenza hanno liberamente tratto ispirazione dalla pratica psicanalitica tematizzando la disparità nelle relazioni fra donne e facendo entrare in gioco il fantasma materno.
   Per esserci nel sociale sfuggendo sia all’esclusione sia all’omologazione, le donne sono state chiamate a ridefinire la struttura simbolica del desiderio: disparità e autorità femminile servono anche a questo, sono leve del desiderio per sottrarsi al potere, sono vie di decentramento dal potere stesso e dagli oggetti di desiderio già disegnati nell’ordine simbolico maschile. In pratiche politiche originali e contestuali, mosse non dal vittimismo reattivo ma dal desiderio attivo, si è sperimentata l’efficacia delle mediazioni femminili, delle relazioni di disparità e di autorità, che fanno sì che fra sé e il mondo ci sia un’altra donna: questo avrebbe dovuto, dovrebbe far uscire le donne sia dall’estraneità al sociale sia dall’omologazione all’uomo e consentire al desiderio femminile di iscriversi nel mondo senza mutilazioni.
   Il riferimento alla pratica psicanalitica rimane sullo sfondo quando s’interrogano e si mettono in gioco i rapporti di disparità fra donne: come, in analisi, la disparità fra analista e paziente è una leva per smuovere il desiderio, così, nelle relazioni fra donne, si punta sulla disparità per mettere al mondo il desiderio femminile. Mentre, nella fase iniziale del femminismo della sorellanza, era importante riconoscersi tutte uguali, sorelle, in seguito sono emerse disparità fra donne che, anziché essere negate, sono state usate come leve per iscrivere nel mondo il desiderio femminile. La disparità come leva capace di mobilitare il desiderio, di mantenerlo in uno scambio fecondo fra sé e sé, fra sé e l’altra e fra sé e il mondo, è l’intuizione geniale alla base delle pratiche della disparità. Non è mia intenzione sconfessare questa intuizione geniale, intendo anzi valorizzarla. Tuttavia, vorrei esprimere dei dubbi e delle domande a proposito del desiderio.
   1. La prima questione riguarda quella che vorrei chiamare una “metafisica del desiderio” che c’è, a  mio parere, in seno al pensiero della differenza sessuale: si suppone che una donna, una volta distolta dagli oggetti maschili di desiderio, in particolare dal potere, sia capace di esprimere un desiderio autentico, femminile, altro; si presuppone l’esistenza di un simile desiderio metafisico, non mimetico ma originale, fuori dal simbolico dominante. Tuttavia, mi chiedo, questo desiderio esiste veramente o non è piuttosto una proiezione mitica? Fino a che punto è libero il desiderio? Innanzitutto, il desiderio è stato intercettato alla grande dal capitalismo, che chiede un consumatore, una consumatrice con la testa sempre piena di desideri per questo o quell’oggetto da acquistare. La psicanalisi, in particolare quella lacaniana, parla a questo proposito non di uno sfrenamento del desiderio ad opera del discorso del capitalista, ma al contrario di una sua estinzione nel circuito immediato del consumo:[7] in gioco nell’orizzonte consumista ci sarebbe non il desiderio ma il godimento, che per i lacaniani ha un significato decisamente negativo.
   Qui devo fare una breve parentesi sul desiderio come mancanza, un tema che risale a Platone e che arriva fino alla psicanalisi contemporanea e anche al femminismo: per ciò che riguarda quest’ultimo, mi riferisco soprattutto all’interpretazione che ha dato di questo tema Luisa Muraro in La maestra di Socrate e la mia e in Al mercato della felicità.[8] Se il desiderio è mancanza, come mostra bene Platone nel Simposio, occorre stare sempre nello sbilanciamento che esso inaugura e mantiene vivo, nello squilibrio fra l’enormità del proprio desiderio e gli oggetti, sempre insoddisfacenti, che mai possono colmarlo del tutto. Se, come afferma Lacan, il fine dell’analisi è quello di far parlare il vero soggetto, che non coincide con l’io ma con l’inconscio, allora occorre essere fedeli alla singolarità sempre provvisoria e sempre deviante del desiderio, che segnala un’“intima estraneità”[9] installata nel cuore stesso del soggetto. In sostanziale sintonia con questa prospettiva psicanalitica, anche il femminismo della differenza insiste sul desiderio come mancanza, rigettando però del tutto la conclusione platonica del Simposio, in cui il desiderio si colma e si acquieta nella contemplazione del bello e del bene in sé.
   Tuttavia, se la conclusione platonica dell’estinzione del desiderio è anche per me sostanzialmente da rifiutare non solo in sé ma anche per la gerarchia fra maschile e femminile che essa instaura – un maschile che genera nello spirito frutti immortali e un femminile che genera solo corpi mortali -, non bisogna però dimenticare che il desiderio non è “buono” di per sé: esso può anche mangiarsi l’anima, farci ammalare, spesso lo fa. Come afferma a tale proposito non Platone ma Aristotele, il desiderio non può essere un fine in sé: il fine a cui tende il desiderio è la felicità (eudaimonia), perché tutti gli altri oggetti desiderati (potere, ricchezza, realizzazione di sé) sono mezzi per il fine di essere felici, mentre la felicità è fine in se stessa, non in vista di altro.[10] Inoltre, riabilitando un po’ Platone contro le interpretazioni contemporanee che accettano da lui unilateralmente solo il tema del desiderio come mancanza, rigettando la pienezza, bisogna dire che almeno un presentimento di pienezza nel desiderio sicuramente c’è: lo riconosce per esempio Freud quando dice che il desiderio sta fra la mancanza e il ricordo inconscio della pienezza, dei primi soddisfacimenti nella relazione con la madre, che lasciano una traccia fantasmatica nell’inconscio.[11] Anche al di fuori della psicanalisi, si può dire che nel desiderio ci sia la nostalgia di una pienezza perduta, quella sperimentata nel legame con il corpo della madre nella prima infanzia. In questa nostalgia di una pienezza perduta, entra in gioco anche l’asimmetria della differenza sessuale, perché l’intimità femminile con la madre, una del proprio stesso sesso, è stata davvero molto grande, più di quanto possa essere stata per un infante di sesso maschile. La relazione materna è un bene perduto e irrinunciabile, soprattutto per una donna.
   Va detto comunque che, nell’orizzonte contemporaneo, il desiderio come mancanza non è l’unica visione del desiderio, benché essa sia sostanzialmente condivisa sia dalla psicanalisi sia dal femminismo: antagonista all’idea del desiderio-mancanza vi è la linea che va da Spinoza a Deleuze, nella quale il desiderio non è visto come mancanza, ma come potenzialità e risorsa, come gioia immanente.[12] Quest’ultima concezione del desiderio è stata rilanciata recentemente da Rosi Braidotti,[13] la cui proposta del post-umano mi trova però poco d’accordo: condivido il senso di un congedo dall’umano, troppo compromesso con termini come uomo e umanesimo, ma l’ibridazione con la macchina, che non è sessuata ma neutra, mi sembra poco promettente, perché rischia di rendere insignificante la differenza sessuale. Nonostante l’opposizione fra il desiderio come mancanza e il desiderio come gioia immanente, ciò che le due linee di pensiero hanno in comune è l’imperativo di mantenere sempre viva la potenza desiderante.
  Ritorno ora brevemente sulla mia domanda, che riguarda la metafisica del desiderio, per precisarla meglio. Come ho già accennato, vi sarebbe a mio parere nel pensiero della differenza una sorta di metafisica del desiderio, cioè la convinzione che una donna, una volta distolta dagli oggetti maschili di desiderio, sia capace di esprimere un desiderio femminile sorgivo, autentico, fuori dal simbolico dominante; si presuppone l’esistenza di un simile desiderio metafisico, non mimetico ma originale. Mi permetto di dubitarne. Per esempio la figura dell’isterica, assunta da alcune pensatrici della differenza come emblematica dell’intero sesso femminile,[14] parla di un desiderio modellato sul desiderio dell’altro, dell’altra. Si auspica un desiderio femminile autentico, sorgivo, non mimetico: ma un simile desiderio esiste veramente o non è piuttosto una proiezione mitica? Secondo René Girard, che ha molto lavorato sul desiderio mimetico, il mito del desiderio originale è una menzogna romantica: la verità che i grandi romanzieri svelerebbero è che il desiderio imita sempre il desiderio più forte, e che solo accettando di essere creature, rinunciando all’orgoglio e ritrovando il senso della trascendenza, si può desiderare secondo se stessi e non secondo quello che gli altri indicano.[15] Girard non ha la chiave di lettura della differenza sessuale, ma io sì e mi sento di affermare, proprio guardando ai luoghi di donne che conosco bene, che anche nei contesti femminili spesso il desiderio imita il desiderio più forte: imparare a desiderare secondo se stesse è un’arte difficile, che richiede un faticoso apprendistato e un difficile scollamento dalle figure che via via si candidano a presentarsi come sostitute del tesoro perduto e irrinunciabile della relazione materna. Girard pensa che occorra ritrovare un qualche senso della trascendenza per desiderare secondo se stessi: anch’io lo credo e penso che proprio per questo molto desiderio femminile, quello delle mistiche ad esempio, si sia giocato nella relazione con l’Altro divino, con una trascendenza che ha consentito di ottenere un’autorizzazione infinita per il proprio stesso desiderio:[16] forse proprio nella tradizione mistica, che è una tradizione soprattutto femminile, risiede il segreto che consente di desiderare secondo se stesse ma senza rinunciare alla relazione con l’altro.
   2. Il secondo dubbio riguarda gli oggetti del desiderio. Senza voler fare del moralismo sugli oggetti del desiderio – moralismo inaccettabile perché, ognuna, ognuno ovviamente desidera quello che vuole, e non c’è altro da dire -, bisogna però andare a vedere che cosa le donne in carne e ossa concretamente desiderano: soldi, carriera, amore, potere, realizzazione di sé? Nell’orizzonte della differenza sessuale, non si fanno discriminazioni fra gli oggetti del desiderio, qualificandone alcuni come buoni, altri come meno buoni, e giustamente, perché, restando all’interno del desiderio, non è possibile avanzare alcuna valutazione né discriminazione fra desideri. Oltretutto, in quest’assenza di valutazione, c’entra anche il fatto che l’ambizione femminile, sempre piuttosto scarsa, va comunque incoraggiata, qualsiasi cosa una donna concretamente desideri.
   La questione di fondo è che, rimanendo nell’orizzonte del desiderio, non è possibile fare alcuna valutazione né avanzare alcun giudizio sugli oggetti del desiderio stesso: qualsiasi desiderio è legittimo e sacrosanto, e non c’è nulla da aggiungere. Tuttavia, come ho già ricordato, Aristotele nell’Etica nicomachea sostiene che una misura del giudizio è possibile se si esce dall’orizzonte stretto del desiderio e se si considera che quest’ultimo non è in realtà un fine in sé, ma è solo un mezzo in vista del fine a cui tutti tendono, che è la felicità.[17] Tutti gli oggetti desiderati sono solo mezzi per il fine di essere felici, mentre la felicità è fine in se stessa, non in vista di altro: si tratterebbe a questo punto solo di valutare se i propri desideri, i mezzi prescelti, siano in grado di procurare la felicità oppure no.
   Nonostante che nel pensiero della differenza sessuale non venga avanzato – e a ragione – alcun giudizio nei confronti degli oggetti del desiderio, tuttavia si può distinguere, seguendo un suggerimento di Luisa Muraro in L’ordine simbolico della madre, fra quegli oggetti che sono una buona restituzione della relazione materna e quelli che ne rappresentano invece una contraffazione.[18] A mio avviso, il pensiero e le pratiche della differenza sessuale scontano una certa ambiguità nell’autorizzare, da un lato, qualsiasi desiderio come espressione della soggettività femminile e nell’incoraggiare invece, da un altro lato, soprattutto quei desideri che si distolgono dalle mete sociali maschili per aprire uno spazio altro, per dare vita al desiderio di esserci come donne, cioè al desiderio femminile come desiderio ontologico. In fondo, la scommessa, centrale nel pensiero della differenza sessuale, di puntare sull’autorità femminile in alternativa al potere[19] può essere letta alla luce di questo discrimine: puntare sull’autorità femminile vuol dire infatti radicarsi nella relazione materna, visto che per una donna la prima figura di autorità è stata la madre, mentre essere attratte dal potere significa essere conniventi con un ordine simbolico di origine maschile.
   In realtà, nel pensiero della differenza sessuale, un giudizio implicito sugli oggetti di desiderio c’è, e riguarda il desiderio dell’emancipata: l’emancipata è una donna che assume acriticamente gli oggetti di desiderio già designati secondo misure maschili. Nella presa di distanza, all’interno del pensiero della differenza sessuale, dalla prospettiva dell’emancipazione, è leggibile in controluce un giudizio di valore negativo su degli oggetti di desiderio che non sarebbero davvero in grado di procurare la felicità auspicata.
   Riguardo a questa obiezione circa gli oggetti di desiderio, tuttavia, bisogna dire che in generale il pensiero della differenza promuove fondamentalmente un desiderio senza oggetto: esalta il desiderio come leva, come capacità di spostamento, come energia, invitando a stare sempre nello squilibrio e nella fecondità degli inizi.[20] Il gioco aperto dal desiderio vi appare come un costante sbilanciamento, come una sproporzione che, anziché condurre alla moderazione, invita al rilancio, perché, anziché lasciarsi paralizzare dalla propria pochezza, si fa della mancanza una risorsa.[21] Tutto è squilibrio nel desiderio: c’è disparità fra sé e sé, in una soggettività fessurata dall’inconscio, c’è disparità fra sé e l’altra, l’altro, c’è sproporzione fra il desiderio e una realtà che sembra ostile o indifferente. Tutte queste disparità, che potrebbero risultare paralizzanti, vengono al contrario interpretate come inviti a rinnovare sempre la contrattazione, a trovare nuove mediazioni, più rispondenti a sé, a muoversi in un incessante andirivieni fra interiorità ed esteriorità, affinché la realtà non risulti indifferente ai propri desideri. Come ha sottolineato giustamente Manuela Fraire, nel femminismo della differenza fin dall’inizio l’importante non è tanto il desiderio di un oggetto, quanto piuttosto “il rapporto e la trasformazione di sé che si opera per via del desiderio”.[22]
   3. Un terzo dubbio che ha a che fare con il tema del desiderio riguarda il progressivo dissolvimento dell’intreccio di sessualità e politica che c’era agli inizi del femminismo degli anni 1970, ad esempio nella posizione di Carla Lonzi: mentre inizialmente il desiderio femminile era interrogato innanzitutto come desiderio sessuale, in seguito la questione del desiderio si è spostata dalla sfera della sessualità a quella del sociale e della politica. In tal modo, come osserva giustamente Ida Dominijanni, si è dato vita a un pensiero del desiderio paradossalmente desessualizzato:[23] il riferimento prioritario alla figura materna come prima figura di autorità e la concentrazione pressoché esclusiva sulle relazioni fra donne hanno messo in ombra soprattutto il desiderio eterosessuale. Dall’eterosessualità normativa, giustamente criticata da Lonzi negli anni 1970, si è passate così paradossalmente a un femminismo desessualizzato, senza più interrogare il nodo di sessualità e politica come particolarmente significativo.
   Rispetto al femminismo della differenza italiano che, dopo gli anni 1970, non si è più interrogato molto su questo tema, Luce Irigaray ha rivolto invece costantemente l’attenzione alla sessualità femminile, cercando di ricavarne figure simboliche a essa corrispondenti: basti ricordare, a tale proposito, l’idea del trascendentale sensibile, una forma di trascendenza in sintonia col corpo e con la carne, e l’immagine del mucoso, una soglia tattile che rinvia al sesso femminile, sempre dischiuso e al tempo stesso capace di “ri-toccarsi” e di ritornare così presso di sé.[24] Irigaray ha avuto attenzione anche per il tessuto simbolico dell’eterosessualità, in particolare trattando il tema della carezza in Etica della differenza sessuale.[25]
  Per reagire al dissolvimento del nodo di sessualità e politica nel femminismo della differenza in Italia, è stato prezioso l’incontro organizzato nel settembre 2014 all’università di Verona da Barbara Verzini, Tristana Dini, Alessandra Chiricosta e Alessandra Pigliaru, per tornare a riflettere sul tema della sessualità femminile nel suo intreccio con la politica.
   4. Vorrei porre una quarta domanda; farne solo tre sarebbe stato meglio per una di formazione hegeliana come me, ma io non sono hegeliana fino a questo punto. A proposito di Hegel, un filosofo centrale per il tema del desiderio almeno quanto Platone, faccio solo un breve inciso: ci sarebbe da dire parecchio sul desiderio come desiderio dell’altro, cioè come desiderio di riconoscimento. Questo è un tema che è un campo di battaglia per il femminismo contemporaneo, e che vede schierate, da un lato, Nancy Fraser, Jessica Benjamin e Judith Butler, sostenitrici, sia pure in modo diverso, dell’importanza del riconoscimento,[26] e, da un altro lato, Carla Lonzi[27] e la prospettiva della differenza sessuale, molto critiche rispetto alla possibilità di leggere la relazione donna-uomo alla luce del desiderio di riconoscimento e della dialettica servo-padrone. Tuttavia, sviluppare questo tema mi porterebbe troppo lontano.
http://www.diotimafilosofe.it/
    Vengo dunque alla mia quarta questione sul tema del desiderio: essa riguarda la caduta del desiderio femminile, il suo mutismo, constatabile anche oggi, nonostante che davvero molto sia stato pensato e fatto per dare voce al desiderio femminile. Esiste ed è largamente diffusa la depressione femminile, in cui il desiderio non solo non solo non rilancia, ma addirittura si ammutolisce e si spegne. E’ stato fatto a questo proposito, all’interno del pensiero della differenza sessuale, un lavoro del negativo, che è prezioso per interrogare i luoghi in cui il desiderio femminile è minacciato o desertificato:[28] interrogare questi luoghi di enigmatico mutismo del desiderio è importante per far sì che il negativo che in essi è custodito non vada a male e perché l’aggressività che vi è incistata non si ritorca in modo depressivo contro colei che non riesce a manifestarla all’esterno. Alcune patologie del desiderio femminile, come quella depressiva, si originano spesso da un difficile rapporto con la madre, da un’ombra del materno minacciosa e incombente: anche qui è la disparità, in questo caso quella con la madre, ciò che fa problema, ciò che paralizza anziché mobilitare il desiderio. Uno squilibrio molto grande, infatti, può incentivare il desiderio, ma può anche paralizzarlo del tutto. Il pensiero della differenza sessuale si è molto interrogato sul desiderio femminile, ma che cosa dire oggi a donne che si scoprono, nonostante ciò, non desideranti?
   C’è nel pensiero della differenza una specie d’imperativo, si potrebbe dire quasi kantiano, a far vivere e ad alimentare i propri desideri, ma stare nello squilibrio del desiderio, se la realtà e gli altri non rispondono, è molto difficile. Il desiderio che non trova risposta può ritorcersi contro colei che lo ha sostenuto, scatenando meccanismi terribili di auto-aggressività e di imprigionamento depressivo. Credo che il meglio che si possa dire in queste situazioni è che occorre stare accanto al negativo, al deserto, al mutismo, perché lì comunque, nella minaccia di un’aggressività rivolta contro se stesse, può esserci un desiderio tacitato, ammutolito, spento, da ascoltare con cura non appena esso dia timidi segni di rinascita.
   Infine, vorrei chiudere con un riferimento al corpo. Il desiderio e la sessualità hanno molto a che fare con il corpo, e la tematica del corpo è anch’essa stata centrale nel femminismo degli anni 1970: in seguito, il tema del corpo è stato meno presente nel femminismo della differenza sessuale in Italia. Il tema del corpo c’entra moltissimo con la differenza sessuale: le donne sono state storicamente, per secoli, schiacciate sulla corporeità, sull’animalità; il corpo femminile può generare, e questo crea una grande asimmetria rispetto a quello maschile.
   Il senso libero della differenza sessuale, che noi abbiamo affermato e che sosteniamo tuttora, non può disfarsi né del peso della necessità né del carico del corpo: non può disfarsi del corpo-sintomo, che ci segnala quando non ce la facciamo più e allora dovremmo proprio ascoltarlo, non può disfarsi del corpo come mediazione con il mondo, evidente soprattutto nel lavoro manuale e nel lavoro di cura, non può disfarsi del corpo che noi siamo, più che averlo come se fosse un oggetto. Tuttavia, il corpo non è solo peso e necessità: è anche – e soprattutto il corpo femminile lo è, per i cicli lunari a cui risponde – un corpo-ritmo, un corpo in relazione con il cosmo. Del corpo parla in tutti questi sensi Simone Weil nei Quaderni.[29] Ho ricordato tutti questi significati del corpo – e forse altri se ne potrebbero aggiungere –, perché il corpo, nel caso del genere umano, non è mai solo corpo, ma è sempre detto dal linguaggio, è incrociato dall’ordine simbolico.
   Personalmente, m’interessa non il corpo come tale, ma l’intersezione fra corpo e spirito. Mi sta a cuore lo spirito che si fa materia, corpo: ne offre uno splendido esempio Simone Weil quando, nei Quaderni, ricorda un romanzo irlandese in cui si parla di una donna il cui fratello era stato condannato a morte. Dopo l’esecuzione capitale, la sorella mangiò, per pura reazione vitale, un intero vasetto di marmellata di fragole. Da quel momento in poi, per tutta la sua vita, questa donna non poté mai più mangiare marmellata di fragole. Lo spirito era passato nel corpo, ed era il corpo a ricordare per sempre, per tutta la vita, la morte del fratello e la propria reazione vitale a questa morte tragica.[30] Qui Simone Weil offre un esempio eloquente di come i sentimenti e lo spirito diventino corpo e dunque anche forza materiale.
   Fra il corpo-sintomo che ci segnala che non ce la facciamo più e il corpo in relazione col cosmo, c’è il sentiero stretto da tracciare fra necessità e libertà: corpo-pesantezza da una parte, corpo ritmo dall’altra. In mezzo ci siamo noi, con la scommessa di fare di ciò che ci è semplicemente capitato di essere, fra cui l’essere nate donne, un guadagno di senso e di libertà. Il senso libero della differenza sessuale vuol dire che del caso che ci è capitato – essere nate donne – , ma anche delle numerose contingenze che hanno segnato la nostra venuta al mondo e le nostre vite, molte delle quali sono degli elementi di costrizione che non abbiamo scelto, possiamo fare comunque una strada di libertà. Il primo e fondamentale dato contingente che mi è capitato in sorte è l’essere nata donna: il femminismo della differenza mi ha aiutato a fare di questa contingenza, di questo elemento ineludibile, che storicamente era sempre stato interpretato con il segno meno, un percorso di libertà.
   Anche altre contingenze che pesano su di me, che non ho scelto, e di cui avrei fatto volentieri a meno, possono dischiudere, pur restando costrizioni subìte, un percorso di libertà, a patto che se ne faccia un uso sapiente, elaborandole e riuscendo a condividere con altre, altri, il senso di ciò che si è vissuto. Faccio un esempio che mi riguarda personalmente: si tratta di una patologia che mi porto addosso ormai da 16 anni, una forma di ciclotimia, per cui sono, a fasi alterne, per lunghi periodi depressa, in altri al contrario euforica. Non è facile stare in quest’altalena, seguire l’onda prima di bassa marea, poi alta come un cavallone nel mare infuriato. A parte curarmi con la psicoterapia e con i farmaci, cose che non mi hanno guarito ma che mi hanno insegnato piuttosto a convivere con questo disagio, ho trovato il modo di fare di questa altalena una risorsa per una cosa che mi interessa molto fare, cioè pensare e scrivere. Nelle fasi depressive, faccio il lavoro di routine: leggo libri, li schedo, prendo appunti; nelle fasi euforiche, avendo messo al sicuro quel lavoro rituale e ripetitivo, ma necessario, scrivo, sull’onda alta che cerco di cavalcare senza farmene sopraffare. E’ stato fondamentale per me, per accettare di stare in quest’altalena e per riuscire a farne, almeno in parte, un uso libero, l’elaborazione dei miei vissuti e lo scambio con le amiche di Diotima, di cui è frutto il libro Immaginazione e politica, in cui ho messo in parole qualcosa di tale esperienza negativa.[31]
   Anche Simone Weil ha fatto di alcune sue inclinazioni che si potrebbero forse ritenere patologiche – una tendenza all’anoressia e un’avversione per la sessualità – un percorso di libertà: il suo sogno di cibarsi di sola eucarestia e la sua idea di un amore fra uomo e donna senza sessualità recano traccia delle sue difficoltà col cibo e col sesso, ma poi le cose che lei dice a proposito del nutrimento, del guardare anziché mangiare il bello, e a proposito dell’amore in generale, sono, nonostante o forse proprio in forza di queste costrizioni vissute incorporate in una libera costruzione di pensiero, dei colpi di genio assoluti.
   Dalle contingenze che ci sono toccate in sorte, prima fra tutte l’essere nate donne, è possibile o addirittura necessario ricavare un guadagno di libertà, facendo sì che esse non pesino semplicemente su di noi, ma che siamo noi a usarle per ciò che ci sta a cuore. Questo è per me il senso libero non solo della differenza sessuale, ma anche delle molte contingenze che segnano le nostre vite: è una scommessa di libertà a partire da ciò che non dipende da noi, un modo di riscattare le costrizioni che ci portiamo addosso dando loro un senso libero, che è sostanzialmente nelle nostre mani.
Note

[1] Cfr. Ida Dominijanni, Il desiderio di politica, in Lia Cigarini, La politica del desiderio, Pratiche, Parma 1995, pp. 7-46.

[2] Cfr. Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, in Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Rivolta femminile, Milano 1974, p. 60.

[3] Cfr. I. Dominijanni, Il desiderio di politica, cit., p. 11.

[4] Cfr. Rosi Braidotti, Dissonanze. Le donne e la filosofia contemporanea, tr. it. di Elvira Roncalli, La Tartaruga, Milano 1994, p. 128.

[5] Cfr. Carla Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, in Sputiamo su Hegel, cit., pp. 77-140.

[6] Cfr. Ida Dominijanni, L’impronta indecidibile, in Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli 2007, pp. 177-196, in particolare p. 183.

[7] Cfr. Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 15. Al di fuori del contesto lacaniano, una tesi simile è sostenuta anche da Byung-Chul Han, La società della stanchezza, tr. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma 2012, e Id., Eros in agonia, tr. it. di Federica Buongiorno, Nottetempo, Roma 2013.

[8]  Cfr. Luisa Muraro, La maestra di Socrate e mia, in Diotima, Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, pp. 27-43, ed Ead., Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano 2009.

[9] L’espressione “intima estraneità” traduce una parola coniata da Lacan, extimité, che allude a una radicale estraneità installata in ciò che c’è di più profondamente intimo: cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino1994. L’espressione “intima estraneità” compare, sulla scia di Lacan, nel titolo del bel testo di Angela Putino, Simone Weil. Un’intima estraneità, Città Aperta, Troina (Enna) 2006.

[10] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it. di Armando Plebe, Laterza, Bari 1973, I (A), 6, 1096 b.

[11] Cfr. Jean Laplanche, Jean Bernard Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, a cura di Giancarlo Fuà, Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Laterza, Bari 1993, pp. 130-131. Il tema del desiderio è presente in tutta l’opera di Freud, per cui è difficile isolare un luogo in cui esso compaia in modo esclusivo: mi limito a segnalare di Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), tr. it. di Filippo Pogliani, introduzione di Jean Starobinski, Rizzoli, Milano 1986, vol. I, cap. III, pp. 194-206.

[12] Sul tema del desiderio in Deleuze, cfr. Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’anti-Edipo: capitalismo e schizofrenia, tr. it. a cura di Alessandro Fontana, Einaudi, Torino 2002, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, in Millepiani, vol. II, tr. it. di Giorgio Passerone, a cura di Massimilano Guareschi, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 5-32, e la voce “desiderio” in L’Abécédaire de Gilles Deleuze, intervista di Claire Parnet a Gilles Deleuze, trasmissione televisiva girata nel 1988 e andata in onda per la prima volta nel 1996, dopo il suicidio di Deleuze.

[13] Cfr. Rosi Braidotti, Il postumano: la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, tr. it. di Angela Balzano, Derive Approdi, Roma 2014.

[14] Cfr. Luce Irigaray, Speculum. L’altra donna, tr. it. a cura di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 66-67, Ead., Questo sesso che non è un sesso, tr. it. di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1978, p. 62, e Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991, Ead., La posizione isterica e la necessità della mediazione, a cura di Mimma Ferrante, Donne Acqua Liquida, Biblioteca delle donne-UDI di Palermo, Palermo 1993.

[15] Cfr. René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, tr. it. di Leonardo Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 1965.

[16] Cfr. Erminia Macola, Un’autorizzazione infinita, in AA. VV., Un altro mondo in questo mondo. Mistica e politica, a cura di Wanda Tommasi, Moretti e Vitali, Bergamo 2014, pp. 84-96. Voglio ricordare qui Erminia Macola, purtroppo recentemente scomparsa, per la sua grande intelligenza, generosità, e per il suo atteggiamento positivo verso la vita. Sulla mistica femminile, cfr. Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003.

[17] Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., I (A), 6, 1096 b.

[18] Cfr. L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, cit.

[19] Cfr. L. Cigarini, La politica del desiderio, cit., pp. 127-184. Sul tema dell’autorità femminile, cfr. inoltre Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli 1995, e, più recentemente, Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg & Sellier, Torino 2013, e Annarosa Buttarelli, Sovrane. L’autorità femminile al governo, Il Saggiatore, Milano 2013.

[20] Cfr. L. Muraro, La maestra di Socrate e mia, cit., p. 37.

[21] Cfr. L. Muraro, Al mercato della felicità, cit., pp. 16-25.

[22] Manuela Fraire, L’effetto-madre. Sulla famiglia e oltre, in Annarosa Buttarelli, Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 123.

[23] Cfr. I. Dominijanni, L’impronta indecidibile, cit., p. 183. Tuttavia, proprio Dominijanni ha rimesso recentemente al centro della sua riflessione il nodo di sessualità e politica, interrogando nuovamente, alla luce delle vicende del ventennio berlusconiano, il tessuto simbolico dell’eterosessualità: cfr. Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014.

[24] Cfr. Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, tr. it. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 90-91 e pp. 142-163.

[25] Cfr. ivi, pp. 142-163.

[26] Cfr. Nancy Fraser, Axel Honneth, Redistribuzione o riconoscimento: una controversia politico-filosofica, tr. it. di Enzo Morelli, Meltemi, Roma 2007, Jessica Benjamin, Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose, tr. it. di Anna Nadotti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991, e Judith Butler, Soggetti di desiderio, tr. it. di G. Giuliani, presentazione di Adriana Cavarero, Laterza, Roma-Bari 2009, Ead., La disfatta del genere, tr. it. di Patrizia Mafezzoli, a cura di Olivia Guaraldo, Meltemi, Roma 2006, cap. “Desiderio di riconoscimento”, Ead., Critica della violenza etica, tr. it. di Federico Rahola, Feltrinelli, Milano 2006. All’interno del campo di battaglia costituito dai diversi femminismi, Nancy Fraser rappresenta la posizione più favorevole al rilancio del desiderio di riconoscimento in seno al femminismo: Fraser assegna un ruolo importante alla richiesta di riconoscimento da parte delle donne, avanzata per superare le disuguaglianze di genere e per denunciare la violenza domestica, la violenza sessuale e l’oppressione riproduttiva, in una serie di rivendicazioni che, dal privato delle relazioni sessuali, investe la sfera pubblica in nome di una richiesta di giustizia. Anche Jessica Benjamin ha valorizzato la tematica del riconoscimento, ma in una prospettiva intersoggettiva, non come strumento di rivendicazione politica: coniugando la prospettiva psicanalitica con quella femminista, Benjamin ha indagato le relazioni di dominio e di sottomissione, instaurate, a partire dalla sfera sessuale, fra uomini e donne. Infine, allontanandosi dalla concezione di Fraser del desiderio di riconoscimento come strumento di lotta politica, Butler si colloca accanto a Benjamin, a cui pure muove delle critiche, nell’interrogare la dinamica del riconoscimento in una prospettiva sia psicanalitica sia intersoggettiva, a partire dalla scissione originaria del sé nella sua apertura costitutiva all’altro. Nonostante la sua riformulazione originale della questione, Butler rimane legata al paradigma hegeliano del desiderio di riconoscimento: lo dimostrano la sua insistenza sul nesso costitutivo fra desiderio e riconoscimento e la sua concezione della soggettività come radicalmente implicata nella relazione con l’alterità.

[27] Cfr. C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, cit., p. 28 e p. 34. Sul pensiero di Lonzi, cfr. Maria Luisa Boccia, Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita, Ediesse, Roma 2014.

[28] Cfr. i due libri di Diotima sul lavoro del negativo nelle relazioni fra donne: La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005, e L’ombra della madre, cit.; cfr. inoltre il mio libro sulla depressione femminile, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile, Liguori, Napoli 2004.

[29] Per i diversi significati del corpo nell’opera di Simone Weil, in particolare nei Quaderni, rimando al mio libro Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile, Liguori, Napoli 1997.

[30] Cfr. Simone Weil, Quaderni, vol. IV, tr. it. a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1993, p. 398. Così Weil commenta questa storia: “Per l’uomo che vive in questo mondo, quaggiù, la materia sensibile – materia inerte e carne – è il filtro, il vaglio, il criterio universale del reale nel pensiero, nell’intero ambito del pensiero, senza che niente ne sia eccettuato. La materia è il nostro giudice infallibile”.

[31] Cfr. il mio saggio Soglia, in Diotima, Immaginazione e politica. La rischiosa vicinanza fra reale e irreale, Liguori, Napoli 2009, pp. 67-102.