menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

sabato 18 giugno 2016

I vincoli alla libertà dei comportamenti

 
Ritrovare la via dello sviluppo secondo il modello italiano - Un Mese di Sociale 2016/4

Aleggia oggi la tendenza moralizzante a identificare alcuni comportamenti individuali come peccaminosi, con la facile traduzione nell'accezione di «penalmente rilevanti». Ma la «devianza» (rottura delle regole) è un indispensabile parametro della creatività, necessario per attivare processi di innovazione (disruption) e sviluppo. Ma oggi possiamo essere abbastanza «devianti» da riuscire ad essere creativi, quando il grado di legittimazione della libertà individuale dei comportamenti è subordinato al primato uniformante di un certo legalismo?
Censis - Piazza di Novella, 2 - Roma

Introduce: Massimiliano Valerii - Direttore Generale Censis
Intervengono:
Andrea Toma - CensisStefano Cingolani - Il FoglioFranco Debenedetti - Presidente Istituto Bruno LeoniFabio Martini - La StampaGiuseppe De Rita - Presidente Censis

“Across Chinese Cities”, tra Marco Polo e Calvino


È un ponte tutto di pietra largo otto passi e lungo duemila che è la larghezza del fiume stesso. Porta ai due lati per tutta la loro lunghezza colonne di marmo che sostengono il tetto del ponte: e il ponte è coperto da un tetto di legno tutto istoriato e dipinto riccamente. Ci sono su questo ponte da una parte e dall’altra molti casottini di legno dove si vendono mercanzie e prodotti vari, ma non sono stabili: si montano la mattina e si smontano la sera. E qui si fa il commercio per il Gran Signore e vi sono quelli che riscuotono la sua rendita cioè il diritto che egli ha sulle mercanzie che si vendono sul ponte. E sappiate che il diritto del ponte si può calcolare in un valore minimo intorno ai mille bisanti d’oro per giorno.
Marco Polo, Il Milione cap. CXV, 1298 (scritto in italiano da Maria Bellonci, 1982)

Marco Polo insegna, sempre. La sua descrizione del Ponte Anshun (letteralmente ‘Pacifico e fluente’) a Chengdu potrebbe aver ispirato la costruzione, nella prima metà del XV secolo, di due file di negozi sul Ponte di Rialto - lungo solo 48 metri, ma per secoli cuore nevralgico dei commerci - all’epoca nella versione in legno strutturale risalente al 1250 circa. Quel che è certo è che i proventi derivanti dall’affitto dei negozi venivano riscossi dalla Tesoreria di Stato della Repubblica Serenissima di Venezia con modalità simili a quelle attuate dal Gran Kan a “Sindufu”, come Polo denomina la città capoluogo della provincia Sichuan.
A oltre sette secoli dal viaggio che il mercante e ambasciatore veneziano descrisse nel Milione - la prima vera enciclopedia geografica - la Cina torna da grande protagonista a Venezia, in occasione di Biennale Architettura 2016, e non solo per la mostra "Daily Design Daily Tao" curata da Liang Jingyu che trova spazio nel Padiglione governativo all’Arsenale: nella sede IUAV di Ca’ Tron, sul Canal Grande, c’è l'Evento collaterale "Across Chinese Cities - China House Vision". Entrambe le esposizioni sono state inaugurate dal viceministro della Cultura Yang Zhijin, arrivato a Venezia per ribadire “gli stretti legami con questa città piena di poesia, modello di integrazione tra civiltà antica e moderna, come un luogo sacro del tardo Rinascimento”. A fare gli onori di casa, la veneziana Laura Fincato - cittadina onoraria di Suzhou, ha ricevuto il Cultural Exchange Contribution Award del Ministero della Cultura Cinese conferito dalla Vicepremier Liu Yandong - la quale ha sottolineato che “grazie anche al lavoro di Zheng Hao, vicedirettore del ministero della Cultura, negli ultimi quattro anni 80 delegazioni di importanti città sono venute a Venezia per mantenere e rafforzare i rapporti di amicizia. Desideriamo tutti, come veneziani, come italiani, che queste relazioni diventino sempre più profonde e importanti”. Principi ribaditi anche da Massimiliano De Martin, assessore comunale all’Urbanistica, che ha sottolineato come "Marco Polo non costruì solo la via della seta: ridusse le distanze tra culture e popoli. Ora siamo qui per parlare di contemporaneità". Parole pronunciate alla presenza di media cinesi nella Sala Giunta grande di Ca’ Farsetti, dove sono state ricevute le delegazioni di “Across Chinese Cities” e di Chengdu (città ospite 2016), che vanta 4.500 anni di storia ed è riconosciuta dall’Unesco sia per il suo patrimonio culturale che per quello naturale: è il regno dei panda. Chengdu ha 13 milioni di abitanti, ma sono 17 milioni nell’area: è la quarta città della Cina per popolazione, turismo ed economia. “Ci auguriamo che questo incontro segni l'inizio di relazioni per scambi nei settori istruzione, cultura, cibo" hanno risposto Bo Luo, vicesindaco esecutivo di Chengdu, e Houlei Duan, direttore generale dell’Information Bureau della provincia di Sichuan.
“Across Chinese Cities” è parte dell’omonimo programma internazionale organizzato e promosso dalla Beijing Design Week (BJDW) guidata da Vittorio Sun Qun, che si prefigge di generare ricerca e contenuti inediti relativi al produrre, pensare e vivere la ‘condizione urbana’ della Cina contemporanea, e così offrire accesso al sapere pratico e teoretico che scaturisce dall’incontro delle sue incessanti sfide ed ambizioni.
Curata da Beatrice Leanza (BJDW) e da Michele Brunello (DONTSTOP Architettura), la mostra costituisce una iterazione dal progetto “House Vision”, piattaforma Panasiatica di ricerca e sviluppo pluridisciplinare lanciata e co-curata dai designer Kenya Hara (direttore creativo del brand Muji) e Sadao Tsuchiya in Giappone dal 2013. “House Vision” è una esplorazione in ‘futuribilità applicata’ nel campo dell’abitare domestico, esercitato da team formati da progettisti nell’architettura e industrie leader di vari settori, accoppiate al fine di realizzare nuove visioni di ‘casa e forme dell’abitare’ che rispondano a complessità urbane esistenti, trasformazioni degli stili di vita e necessità umane. Una riflessione sulla condizione abitativa del futuro, soprattutto in Asia: dopo il lancio di House Vision China a Milano in occasione di Expo 2015, quest’anno a Venezia vengono mostrati i primi risultati delle ricerche svolte da 12 studi di architettura dislocati in tutta la Cina.
"L’allestimento di 'Across Chinese Cities - China House Vision' disegna uno spazio domestico e pubblico, lanciando la sfida di cambiare le città a partire dalla liberazione dei desideri individuali che si proiettano sulla casa, al di fuori di ogni omologazione - spiega Brunello -. Quello che oggi costituisce la differenza sociale, e cioè la personalizzazione della propria casa secondo i propri desideri, concessa spesso solo ai più abbienti, in futuro potrebbe diventare accessibile a tutti ed elemento costitutivo del progetto residenziale adatto a tutte le possibilità economiche, a tutte le scale e a tutte le latitudini. L’obiettivo, oggi come ieri, rimane ridurre le differenze; la novità è che oggi si può provare a farlo moltiplicando le differenze".
Entrando a Ca’ Tron si incontrano prima di tutto gli spazi riservati a Chengdu: curati dal Beijing Center for The Arts (BCA), sono interamente dedicati alla cucina. ‘The Floating Kitchen’ di Kengo Kuma ci riporta alla cucina tradizionale cinese, che vanta tra gli ingredienti principali quelle spezie che fecero la fortuna dell'antica Repubblica di Venezia: sembra di viaggiare con Marco Polo, tra oggetti vintage e video istallazioni che mostrano cuoche all’opera, in ambienti simili a quelli delle nostre trattorie. È quindi un balzo quasi epocale quello che ci fa fare ‘The Infinity Kitchen’ di Winy Maas: una lunghissima cucina tutta trasparente che punta ad elevare la nostra consapevolezza sui singoli procedimenti del cucinare, celebrandone i rituali in modo poetico.
Tanta poesia si trova anche al piano nobile di Ca’ Tron, dove si sviluppa la sezione principale di “Across Chinese Cities – China House Vision”. Poesia nello stile di Italo Calvino, che ne Le città invisibili fa dire a Marco Polo in un dialogo con Kublai Kan: “Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure”. Qui in realtà troviamo soprattutto desideri.
Per citare solo alcuni esempi, Yungo Chang ci propone ‘The Bike House’, istallazione che nasce dal suo amore di tutta la vita: la bicicletta, il cui utilizzo per il trasporto urbano viene ora promosso dall’Amministrazione municipale di Pechino. ‘The Bike House’ propone progetti di abitazioni per ciclisti, con spazi interni in cui muoversi comodamente in sella alla bici, e nuovi spazi collettivi per comunità di appassionati della bicicletta.
‘Back Home’ di Liang Jingyu si ispira a valori di autosufficienza e interconnessione tra Uomo e Natura, concetti cari agli antichi canoni etici cinesi. Nasce dall’osservazione degli stili di vita in regioni rurali remote, dove la sincronicità di attività fisiche e spirituali viene tuttora praticata in una coesistenza armoniosa.
‘The House of Spontaneity’ di Hua Li esplora i rituali che donano il senso di ‘essere a casa’ agli spazi in cui viviamo: celebra la possibilità che l’abitazione del futuro incarni l’espressione individuale, e che la casa sia un luogo aperto al cambiamento e alla costante riconfigurazione.

Venezia, Ca’ Tron – fino al 23 settembre

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di Maristella Tagliaferro © Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

domenica 5 giugno 2016

Post-umano, ora

 By
http://www.kainos.it/numero6/emergenze/emergenze-pepperell-it.html

THE POSTHUMAN MANIFESTO
TO UNDERSTAND HOW THE WORLD IS CHANGING IS TO CHANGE THE WORLD

MANIFESTO DEL POSTUMANO
CAPIRE COME IL MONDO CAMBIA È CAMBIARE IL MONDO

di Robert Pepperell

Il MANIFESTO rivela l'interesse a mettere sotto l'occhio della critica il passaggio dell'umano, non a qualcosa che lo supera, ma a qualcosa che lo abbatte. Non über, ma post. L'attacco dell'assetto attuale del mondo all'essenza-uomo è radicale, di una radicalità aggressiva, violenta, di una violenza insidiosa, ed è totale, va ormai dal luogo di lavoro al tempo libero, viene dall'alto e dal di dentro. È una mobilitazione totale, della scienza e quindi della tecnica, della comunicazione e quindi del linguaggio, dell'immaginario e del reale insieme, dove quello che accade e quello che si racconta, la vicenda e lo spettacolo, si confondono. Per smascherare l'apparato di questo scenario occorre mettere in campo una strategia complessa di analisi. Ed è esattamente quello che va fatto, utilizzando vari livelli di analisi e diverse culture disciplinari, senza spaventarsi dell'impatto tecnico sul tempo di vita, dell'ibridazione della condizione umana sempre poiù articializzata ed articializzabile. Del resto, la "cultura" non è la dfimensione extragenetica, artificiale della condizione di vita umana ? L'epoca del post-umano è iniziata; nelle "cose" della storia e della vita quotidiana essa si mostra; non è necessario leggere mille libri per entrare in contatto con il nuovo mondo che ci circonda: basta leggere le pagine divulgative delle notizie scientifiche dei maggiori quotidiani. È già prossimo il tempo in cui ciascuno potrà ordinare via Internet tutte le protesi necessarie al buon funzionamento del suo corpo e tutti i farmaci che possono potenziare il suo apparato sensoriale e le sue funzioni cognitive. Ci saranno cliniche specializzate con medici ingegneri che applicheranno alla nostra massa cerebrale micro-chip che renderanno possibile suonare Beethoven senza aver studiato musica e che forniranno prodotti farmacologici «miracolosi» per stimolare le zone cerebrali, i neuroni e le sinapsi che presiedono alle sensazioni finora imputate alle persone umane. Votare in una cabina elettorale non sarà una scelta tormentata, ma l’effetto automatico di una reazione elettrochimica che trasmette stimoli ad una parte del cervello. Ibridazione con le macchine e «sacrificio al dio protesi» sono le nuove parole che delineano il lessico della narrazione post-umana. L "controcorrente" è già "corrente" ordinaria e l’illusione scientista tecnologica è un ennesimo tentativo di cancellare la questione del «cosa è un uomo» dall’agenda del pensiero occidentale. Codice genetico e codice binario vanno già a braccetto. Quando i "reperti biochimici" del nostro "vissuto" fisico e mentale saranno estraibili dalla psiche individuale e resi digitali, allora . . .
 

Libri per pensare - Tutti i libri della collana Citoyens - CRS

Tutti i libri della collana Citoyens - CRS

La lettera blu

Massimo Mastrogregori La lettera blu Le Brigate rosse, il sequestro Moro e la costruzione dell’ostaggio Parole chiave: Pubblicato nel: Ottobre 2012 Pagine: 192 ISBN: 88-230-1687-3 Ediesse Prezzo: 12.00€ Acquista sul sito dell’editore. La morte di Moro è sempre..
 

Dall’estremo possibile

Mario Tronti Dall’estremo possibile A cura di: Pasquale Serra Pubblicato nel: Mag 2011 Pagine: 244 ISBN: 88-230-1564-7 EDIESSE Prezzo: 12.00€ Acquista sul sito dell’editore In questo libro vengono raccolti alcuni scritti di Mario Tronti, che hanno come... 
 

Europa e Mondo

Pasquale Serra Europa e Mondo Temi per un pensiero politico europeo collana citoyens Formato 12×16,5 Pagine 208 Prezzo euro 8,00 Codice ISBN 88-230-0595-7 Uscita Novembre 2004 Come si pone l’Europa per rapporto al Mondo? In che modo la storia e la cultura di... 
 


mercoledì 1 giugno 2016

A Monza Doisneau, fotografo delle banlieue (By Grazia Lissi)

Parigi 1950, un fotografo dell’agenzia Rapho scatta la foto che diventerà l’icona dell’amore assoluto. Il bacio a l’Hotel de Ville è forse lo scatto più celebre del Novecento, sicuramente il più commerciale, visto che ancora oggi è riprodotto su poster, magliette, cartoline. Solo dopo decenni l’autore svelerà di aver creato la foto chiedendo a due fidanzati incontrati al Cafè Villars, in Rue de Rivoli, di posare per lui. Non era uno scatto spontaneo ma quest’immagine intensa come le canzoni di Edith Piaf consacra alla storia della fotografia Robert Doisneau. Fino al 3 luglio 2016 all’Arengario di Monza (MB) una mostra dedicata al maestro parigino: Robert Doisneau. Le merveilleux quotidien a cura dell’Atelier Doisneau, Francine Deroudille, Annette Doisneau, realizzata da Fratelli Alinari, Fondazione per la Storia della Fotografia e Vidi (catalogo Alinari) .
Robert Doisneau nasce nel 1912 a Gentilly, nella periferia parigina, un quartiere popolare che segna profondamente i reportage dell’artista. Diventa il poeta delle banlieue, il narratore della vita di strada e dei suoi sconosciuti abitanti. Doisneau inizia a fotografare nel 1930, sceglie come tematica «arredi urbani», materiali comuni esaltati da luce naturale, «mucchi di pietre per lastricare, cortine d’alberi, lanterne di quartiere, pezzi di grondaia. La mia collezione mi riempiva di gioia», scrive sul suo diario. Fotografa per il puro piacere dello scatto, per sentire il rumore della tendina abbassarsi e, poi, passare al silenzio della camera oscura. «Avevo poco più di diciotto anni e un’attrezzatura che non mi permetteva foto in movimento. Il mio occhio di giovane incisore alla ricerca di materiali interessanti si è probabilmente attardato su questo ammasso di pietre che riceveva la luce in maniera perfetta. O forse ho ceduto alla dittatura del mio inconscio? Mio nonno faceva il cavapietre a Epernon nell’ Eure-et-Loire».
Accetta di lavorare come fotografo per Renault ma le schematiche foto della produzione l’annoiano, viene chiamato da Vogue ma anche la moda non lo soddisfa. Comincia a collaborare con un’agenzia fotografica a cui resta legato tutta la vita. Nel 1946 lavora con lo scrittore Blaise Cendrars al suo primo libro, La banlieue de Paris, che nel 1949 vince il premio Kodak, e nello stesso anno incontra Jacques Prévert.
«La voglia di fare una fotografia, spesso, è la continuazione di un sogno. Mi sveglio un mattino con una straordinaria gioia di vedere, di vivere…Allora devo andare. Ma non troppo lontano, perché se si lascia passare del tempo, l’entusiasmo, il bisogno, la voglia di fare svaniscono». Come per gioco fotografa il quartiere dove vive, la periferia della Ville Lumière. Bambini attraversano il selciato camminando sulla mani e a testa in giù, giovani mamme consolano i loro piccoli, ragazze sorridono al futuro, giovani prendono il sole sulle rive della Senna, portinaie sospettose sbirciano dalla guardiola. Una lunga sequenza di gente semplice, anonimi di un mondo sommerso che Doisneau che con la sua macchina fotografica fa esistere. Umili che consegna alla storia e che, grazie a lui, possiamo ricordare e amare.
«Quello che cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere».
Il fotografo scompare nel 1994 senza essersi mai allontanato da Parigi, senza mai realizzare reportage all’estero come facevano molti suoi colleghi. L’amico Prevèrt scriveva: “Robert Doisneau, senza alcun orgoglio o complesso di superiorità, prepara i suoi specchietti per le allodole…e coniuga il verbo fotografare sempre all’imperfetto di un modo e di un mondo assolutamente oggettivi”.


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Biennale 2016: L’architettura non è un esercizio di stile



L’immagine scelta come icona della 15° mostra internazionale di architettura che ha aperto i battenti il 28 Maggio è molto emblematica dell’approccio che ha guidato il curatore cileno Alejandro Aravena nell’impostazione dell’edizione di quest’anno, dal titolo altrettanto significativo, Reporting from the front. Nella foto (di Bruce Chatwin) compare una donna in piedi su una scala di alluminio intenta a scrutare il paesaggio intorno a lei, a prima vista una sorta di ‘terra desolata’: è l’archeologa Maria Reiche che osserva dall’alto le linee Nazca. Ciò che a livello del terreno appare solo pietrisco sparso casualmente, da una diversa prospettiva forma figure di senso compiuto, animali, fiori, alberi. Ed è proprio un nuovo punto di vista quello che Aravena si è ripromesso di cercare: una nuova prospettiva, un modo diverso di affrontare le cose radicalmente pragmatico, che comprenda l’orizzonte anche etico del lavoro dell’architetto, coniugando alla dimensione creativa dell’architettura la componente di responsabilità di fronte alle questioni che riguardano l’uomo e la qualità della vita.
La Biennale di architettura si configura quest’anno quindi soprattutto come un’occasione per conoscere e condividere esperienze efficaci che hanno saputo trovare risposte a istanze non più rimandabili e di assoluta rilevanza: nodi critici come le periferie, l’accesso ai servizi sanitari, i disastri naturali, la carenza di alloggi, le migrazioni, il traffico, lo spreco, i rifiuti, l’inquinamento. Perché l’architettura può ‘fare la differenza’: il richiamo è a superare lo scollamento tra architettura e società civile, il soffermarsi sugli aspetti più superficialmente decorativi o spettacolari e a prendere in carico invece in primis gli aspetti pratici e concreti, i temi scomodi, i punti dolenti, intorno ai quali costruire soluzioni creative ed efficienti, coinvolgendo le comunità degli abitanti come parte attiva nella definizione degli spazi. E buon senso e creatività non sono affatto in opposizione, anzi. L’architettura è, e non deve dimenticare di essere, per sua natura una disciplina ‘sintetica’, nel senso che è chiamata a integrare esigenze diverse, a rispondere su più fronti, dalla dimensione culturale ed artistica a quella sociale, ambientale, economica.
La cifra che caratterizza la Biennale quest’anno rispecchia del resto il ‘DNA professionale’, del suo curatore: Aravena insieme ad alcuni soci ha fondato lo studio Elemental, che si occupa di “progetti di interesse pubblico e di impatto sociale”, con un approccio “partecipativo alla progettazione”, in cui gli architetti lavorano a stretto contatto con i destinatari del progetto: e da aprile Aravena ha reso scaricabili liberamente dal sito alcuni dei suoi progetti, per creare un sistema aperto, che consenta di incanalare e arricchire le risorse disponibili in modo efficace, per rispondere alle emergenze abitative in tutto il mondo.


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Rothko, il teatro del colore (By Gaia Manzini)

Immaginate un artista cinese nel suo studio a New York. Non un loft hipster di Dumbo, piuttosto un garage, nel Queens. Usa il rosso in modo strabiliante, senza sforzi, per lui il rosso è un istinto.
Pochi mesi fa, Ann Freedman, ex presidente della famosa galleria newyorkese Knoedler & Co, esce dal tribunale con un mezzo sorriso. L’accusa di aver venduto a Domenico ed Eleanore De Sole un falso Rothko per 8,3 milioni di dollari pare si sia risolta con un accordo. L’accusa non si limitava alla singola vendita: il capo d’imputazione era quello di racket e commercio illegale di false opere d’arte, tra cui pezzi dei più grandi maestri dell’Espressionismo Astratto come Jackson Pollock e Willem de Kooning. Ann Freedman ha sostenuto per tutto il processo di essere stata ingannata dalla fattura impeccabile dei falsi.
Il rosso di Rothko continua a sedurre dopo più di quarant’anni della sua morte. E forse non è un caso che questo sia l’anno dei record nelle quotazioni, con un dipinto venduto in asta per 82 milioni di dollari.
Come si fa a falsificare una campata di colore? Sembra la cosa più facile e nello stesso tempo la più difficile del mondo. Il falso Rothko della discordia è l’artista cinese Pei-Shen Qian, un mite settantacinquenne, messo al centro di una delle più grandi frodi a danno del mercato dell’arte statunitense, e tempestivamente scappato in Cina prima che la polizia facesse irruzione nel suo studio. Verrebbe voglia di raggiungerlo per chiedergli come abbia fatto a cogliere il segreto di quel rosso, quale processo mentale abbia avviato, quale riflessione filosofica, quale impulso abbia seguito.
Negli stessi anni in cui Qian dipingeva i suoi Rothko, andava in scena Red, la piéce di John Logan (famoso sceneggiatore di film come The Aviator e Hugo Cabret di Scorsese, e Sweeney Todd di Tim Burton). Dopo il successo al Golden Theatre di Broadway e al Donmar Warehouse di Londra, Red si è aggiudicata sette Tony Award nel 2010. Poi, quella stessa piéce è stata portata in Italia dal Teatro dell’Elfo, con il titolo Rosso, la sapiente regia di Francesco Frongia e l’efficacissima interpretazione di Ferdinando Bruni, nel ruolo di Rothko, e di Alejandro Bruni Ocaña, in quello di Ken, giovane assistente del pittore. Il successo americano è diventato successo italiano per quattro lunghi anni di rappresentazioni, che si sono concluse a maggio al teatro India di Roma. Ironia del destino, a poche settimane dall’accordo sul “caso Rothko” a New York.

È come se il mondo non riuscisse a smettere di pensare a questo pittore, come se la sua biografia si dipanasse ben oltre la sua morte, con coincidenze, ritorni, déjà-vu, meravigliose sovrapposizioni che si prestano a una continua rappresentazione dell’artista. È come se il teatro, la trasposizione scenica, fosse consustanziale alla sua stessa opera. Scriveva Rothko: “ Penso ai miei dipinti come a opere teatrali: le forme che appaiono sono gli attori sul palcoscenico… Non è possibile prevedere né descrivere in anticipo quale sarà l'azione o chi saranno gli attori.”
Capelli rasati, tuta da lavoro, Ferdinando Bruni è Mark Rothko nel 1958, anno in cui riceve la commissione per una serie di tele destinate al ristorante Four Seasons di Manhattan. Il compenso è irrifiutabile: 35.000 dollari. Una mattina nel suo studio si presenta Ken, giovane pittore che diventerà il suo assistente.
È lo studio del pittore quello che vediamo sulla scena (con quadri dipinti dallo stesso Bruni, che come Pei-Shen Qian ha dovuto trovare un processo mentale, un gesto per far vivere il rosso, lo stesso di Rothko; anche se in questo caso si tratta di un gesto fondante, non solo imitativo: il cortocircuito tra l’interprete e il suo personaggio). È lo studio di Rothko ma è molto di più, è lo spazio mentale dell’artista, il luogo dove nascono gli impulsi che si trasformano in materia, in colore sulla tela. Lui è un filosofo della pittura, cerca l’assoluto del colore, l’assoluto dell’uomo. Per lui l’artista moderno deve prendere come modello l’esperienza umana nel suo insieme, “e in questo senso si può sostenere che ogni opera d’arte è il ritratto di un’idea” (Scritti sull’arte, Donzelli). Sì, la scena è uno spazio mentale, siamo dentro la testa dell’artista e dentro la sua solitudine radicale, poco importa che per tutto il tempo sul palco ci sia un altro personaggio.
Ma che cos’è il rosso? Rosso fuoco, magenta, granata, corniola, lo smalto delle unghie, l’alba, il tramonto, babbo natale, satana. Il rosso è movimento, quel passaggio mentale continuo da concreto ad astratto, e di nuovo concreto. Rosso è una piéce sul colore, il suo linguaggio, la forza che lo lega alla vita e al suo senso (l’arte, diceva, ha a che fare con i concetti tragici: parla della solitudine dell’uomo, della fugacità della vita). Un pittore giovane e uno più vecchio a suon di musica iniziano a passare il colore su una tela grandissima, una tela che comprende in se stessa chi la dipinge. Si accaniscono sul bianco insieme, lo spazzano via, trovano un’intesa ideale, come in un dialogo che funziona alla perfezione, un dialogo maieutico.
Rothko era un uomo coltissimo, e nel dialogo tra i due personaggi si parla di Nietzsche, di Dioniso e Apollo, del senso dell’arte. Rothko-Bruni discute con ferocia, teorizza senza possibilità di contraddizione, dice di aver spazzato via il cubismo insieme a Newman, De Kooning e Pollock; disprezza Warhol, la superficialità dei nuovi artisti che si stanno affermando sulla scena newyorkese. È titanico, muscolare, una specie di eroe dell’antichità. Eppure, sul percorso delle coincidenze s’incontra un libro uscito da poco e scritto dal figlio del pittore, Christopher: Mark Rothko: From the Inside Out, Yale University Press. In queste pagine rivive un uomo diverso da quello che ci è stato descritto. Qui il figlio lo tratteggia come un artista esteticamente fragile, che preferiva stare da solo, ascoltando Mozart. Ma è davvero in contrasto questa rappresentazione con quella vista sul palcoscenico?
Per Rothko ogni quadro era un’avventura in un mondo sconosciuto, bisognava assumersi dei rischi. Ma è anche vero che un quadro è qualcosa di vulnerabile, come la vita: basti che cambi la luce per fare scomparire la sua tensione. “Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile. Muore per la stessa ragione.” (sempre in Scritti sull’arte). Il senso, direbbe il filosofo Jean-Luc Nancy, è spartizione, è circolazione.
Quello che si percepisce, che diventa quasi materico sulla scena, è la fragilità, e la paura. Qui sta per me la forza di questo spettacolo. Dice il pittore: “Di una sola cosa ho paura: che un giorno il nero inghiotta il rosso”. Quello a cui non si riesce a smettere di pensare quando si guarda la scena è al sangue e al senso di una fine. L’artista e la fine della sua arte, o solo la premonizione di qualcosa che sta per finire, la paura di non essere più a contatto col senso.Vibra continuamente un che di tragico: non è la rabbia né il distacco del protagonista (così ben concepito da Bruni), ma è la prossemica a scatti, disarmonica, che taglia di continuo il rosso (spalmato ovunque, anche in terra). Molti anni più tardi, dopo aver dipinto un’intera cappella per i De Menil a Houston, il 25 febbraio del 1970 Mark Rothko si suiciderà.
Scrive la meravigliosa Lucia Berlin, autrice riscoperta da poco, nella Donna che scriveva racconti, a proposito dei suoi anni newyorkesi e di una mostra di Mark Rothko al MOMA: “La luce era intensa per la neve che si vedeva dai lucernari; i dipinti palpitavano”. La neve c’è anche in Rosso. Un’altra coincidenza, un'altra prova che il mondo non dimentica l’artista. Lo scrive, lo riscrive. Lo rappresenterà ancora per molto.

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Biblioteca Angelica - III Convegno PSICHE E ARTE

21 Maggio 2016 - Biblioteca Angelica - Piazza Sant'Agostino 8 Roma
III Convegno PSICHE E ARTE a cura di Antonio Di Micco
 
Sono intervenuti
Simona Maggiorelli, giornalista e storica dell'arte
Maria Mantello, professore di storia e filosofia, giornalista
Daniela Polese, psichiatra e psicoterapeuta, Università di Napoli Federico II
Roberta Pugno, artista
Ugo Tonietti, architetto, Università di Firenze
Una produzione Associazione "Ipazia Immagine Pensiero"
   L'intero Convegno:

Via della seta: Notti al Museo dell’Innocenza (By Gianfilippo Terribili)

«Mi fu chiaro ancora una volta che il passato penetra negli oggetti e li riempie come un’anima» O. Pamuk

In programma solo nelle serate del 7 e 8 Giugno sarà proiettato nelle sale italiane il film documentario girato da Grant Gee e dedicato al Museo dell’Innocenza di Istanbul, uno spazio nato dall’immaginazione del premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk che racchiude una memoria tanto individuale quanto collettiva della metropoli sul Corno d’Oro. La struttura, che nel 2014 ha ricevuto il premio Museo Europeo dell’Anno, ha aperto i battenti nel 2012 prendendo forma dalle pagine dell’omonimo libro dell’autore turco e dalla sua instancabile ricerca letteraria incentrata sulla città e i suoi abitanti. Ideato come un’alchimia fra flusso sensoriale e frammenti emotivi, il museo coniuga un linguaggio espressionista alla magia surreale tipica dei racconti di Jorge Luis Borges. Gli oggetti qui raccolti ripercorrono attraverso la trama del romanzo di Pamuk non solo le vicende di un amore appassionato ma anche la storia recente della città. Un percorso che finisce per creare un doppione intimista della Istanbul reale rimodellato dall’inventiva del grande scrittore ed esternato per mezzo di un caleidoscopio di piccoli oggetti carichi di esperienza privata e immaginario popolare. In una sorta di dimensione atemporale ogni pezzo trova corrispondenza nella narrazione del libro e segue la vertigine collezionista del suo protagonista, Kemal, sebbene in realtà ciò che qui è classificato, incorniciato ed esposto nelle teche sia una coscienza nazionale e condivisa. Nella creazione di Pamuk l’infelice amore di Kemal per la bella Füsun trova il suo sfogo nella collazione ossessiva di pezzi che ne evochino il ricordo; minuziosamente disposti nella vecchia dimora dove “viveva” l’amata, sono infine affidati all’amico scrittore incaricato di ricostruirne la storia. La disposizione stessa della curiosa collezione, assemblaggio di singole unità in composizioni che creano poliedrici insiemi densi di ricordi, ruota intorno ad una realistica illusione che risucchia in un vortice disorientante e al contempo avvolge in un atmosfera familiare. Situato nell’affascinante quartiere di Çukurcuma, oggi oggetto di riqualificazione, il museo si inserisce alla perfezione in un tessuto di vicoli contorti, vecchi caffè, botteghe artigiane e rivenditori di anticaglie. Il progetto lungamente perseguito da Pamuk si coniuga con l’universo delle sue opere in cui luoghi e personaggi, vere e proprie trasposizioni di ricordi e vicende cittadine, assurgono a modelli esemplari di un’epoca accantonata dai travolgenti cambiamenti degli ultimi decenni. Pamuk infatti ritorna più volte nei romanzi sulle atmosfere della Istanbul della sua infanzia e della sua giovinezza, calando le esperienze soggettive in un contesto storico oggettivo rievocato da foto in bianco e nero, locandine di vecchi film e cimeli di ogni tipo. Il museo quindi rappresenta il recupero di una memoria urbana che poggia sulla caratterizzazione topografica di una città i cui cicli di decadimento e metamorfosi lasciano tracce palpabili. Dalle pareti minuziosamente allestite promanano impressioni multisensoriali dal primaverile odore di tiglio sollevato dalla brezza del Bosforo alle immagini degli ambienti domestici, mentre sembra di percepire voci e dialoghi de ‘Il Signor Cevdet’, de ‘Il Libro nero’ o delle esperienze autobiografiche descritte in ‘Istanbul’. Proprio attraverso il suo potere evocativo l’esibizione trascina in un passato rarefatto in cui le prime passeggiate in Chevrolet delle famiglie borghesi radunavano lungo i marciapiedi una folla attratta dalle scintillanti cromature. Le medesime strade e ponti divenivano di notte lo scenario di precipitosi inseguimenti di contrabbandieri e boss dei locali notturni di Beyoğlu; così come i palazzi patrizi di Nişantaşı proteggevano la vita di gioSvani rampolli che scorreva parallela alle fantasticherie dei lettori di rotocalchi popolari, i quali, aspirando ad un repentino riscatto sociale, si figuravano in cene galanti con dive platinate. Nel Museo dell’Innocenza come nella penna di Pamuk è palpabile invero un’indagine profonda sulle tensioni socio-politiche e identitarie di una Turchia in evoluzione ed in bilico fra il laicismo nazionalista, il conservatorismo religioso delle classi meno abbienti e l’ansia borghese di conformarsi al modello occidentale. Tendenze espresse nei profili psicologici tratteggiati da Pamuk attraverso la frustrazione e inadeguatezza scaturite dal senso di colpa per il fardello di una mentalità tradizionalista e dal vuoto che la modernizzazione comporta. Un’Istanbul colma di acuti stridori riscopre così un’ingenua e malinconica innocenza all’interno di un «museo sentimentale», plasmato su una finzione narrativa ma al contempo capace di raccontare concretamente la quotidiana esperienza urbana di una memoria che, seppur stravolta dall’incipiente modernità, rivive in oggetti comuni, minuti dettagli carichi di magia e intrisi di significato.

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