menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

lunedì 4 luglio 2016

Dal fondamentalismo digitale alla sua critica - Un contributo di Bernardo Parrella

Per una critica e una cultura della Rete partecipate e autonome (pure in Italia?)

Creare alternative all’economia liberista, alle cyber-omologazioni e ai nuovi info-monopoli: yes we can !

Lo tsunami dell’innovazione high-tech ha contribuito non poco a mandare in frantumi ogni possibile programma per un’economia globale adeguata alle esigenze degli oltre sette miliardi di persone oggi in circolazione sul pianeta. Pur a fronte di dinamiche più ampie e imprevisti vari, nel complesso è evidente come in questi anni siano venute sempre meno le promesse di prosperità e benessere diffuso sull’onda del progresso tecnologico (quantomeno nelle società occidentali e al di là dei minimi vantaggi offerti da internet e device sparsi). L’emergere dell’élite digitale ha pesato (e pesa) parecchio in una distribuzione della ricchezza sempre più verticale anziché orizzontale come ci si aspettava (1% vs. 99%). In altri termini, come chiarisce il critico mediatico e docente newyorchese Douglas Rushkoff nel suo libro fresco di stampa Throwing Rocks at the Google Bus, le conseguenze di «questo tornado tecnologico… stanno intrappolando l’umanità intera». Ovvero:
È ora di ottimizzare l’economia rispetto agli stessi esseri umani che si presume debba servire.
Dove è il sottotitolo del libro a mettere il dito nella piaga: «in che modo la crescita è diventata il nemico della prosperità». Perché, tanto per essere chiari, non è che i venture capitalist investano in una start-up per vantarne la proprietà o dare spazio a un qualche progetto, bensì per rivenderla — nei tempi più stretti e con il massimo di ricavi possibili. La crescita è il mantra obbligatorio. Conquistare, subito, ampia visibilità e massa critica. Contano soltanto gli steroidi digitali:
L’azienda finisce per virare dalla sua mission originaria onde poter crescere al punto da mettere a segno un “home run” , sotto forma di acquisizione o entrata in borsa. E i finanziatori preferiscono vederla morire piuttosto che farla vivere con una vittoria modesta.
Un quadro dove convergono fattori apparentemente disparati: big data e ‘tutto gratis’, robot e intelligenza artificiale, algoritmi nelle piattaforme social e nelle transazioni azionarie, le pratiche monopoliste delle mega-corporation e la cosiddetta ‘sharing economy’, fino al costante rischio di nuovi tracolli economici, come già accaduto con lo scoppio della bolla dot-com d’inizio 2000, la crisi di Wall Street con ripercussioni mondiali del 2008/9 e il recente collasso dell’Eurozona.


                           Murales a San Francisco (da Wikipedia)
Attenzione, però, rimarca Rushkoff: la colpa non va addossata unicamente a Google & co, ai suoi dirigenti e impiegati, che diventano invece facile bersaglio del 99% e si beccano i sassi tirati contro gli autobus che li trasportano ogni giorno da San Francisco negli uffici di Mountain View (le proteste di piazza risalenti a un paio d’anni fa e a cui allude il titolo del volume). Ovviamente il problema è ben più complesso, anzi:
L’economia digitale del XXI secolo viene tuttora gestita con un sistema operativo basato sulla macchina da stampa del XIII secolo.
Il riferimento più ampio è alla cultura imperante a livello economico, oltre che socio-politico, dove gli azionisti impongono simili crescite verticali assolutamente insensate, dove contano solo i ‘capital gain’ rispetto a più modesti ma sicuri dividendi, dove non si esita a inglobare o far fuori nottetempo i diretti rivali. Già, come se la crescita non abbia limiti: il miraggio dell’era post-capitalista veicolato dalle politiche neo-con e neo-liberiste, prontamente abbracciate fin dai suoi albori dalla Silicon Valley – come descrivevano nel 1995 gli accademici britannici Richard Barbrook e Andy Cameron in “The Californian Ideology”, critica acuta del neo-liberismo dot-com superata solo in parte e tuttora cruciale per la memoria storia del digitale. E pur se oggi quell’egemonia dei tech-libertariani non è più così possente e subisce critiche (e abbandoni) diffusi, cosa potrà mai sostituirla? Forse una miriade di teorie e pratiche scioltamente interconnesse (con gli obbligatori agganci offline), o magari una varietà di spazi iper-frantumati tanto quanto la “balcanizzazione” dell’odierna internet?

In altri termini, la complessa molteplicità tra cause/effetti di diversa origine evidenziata da Rushkoff rivela comunque uno “zoccolo duro” nell’inarrestabile innovazione high-tech (o presunta tale) non vanno certo sottovalutate. Tanto per restare nell’area di San Francisco, dove la gentrificazione innescata dal tecno-boom aveva preso piede già a inizio anni ‘90 (ne sono stato testimone diretto), questi problemi continuano ad aumentare a dismisura, anziché ridursi. La popolazione di homeless è alle stelle, per non parlare dei precari in tutti i sensi, con costi (e qualità) della vita davvero impossibili, anche per chi ha un’occupazione stabile.
Non a caso una recente inchiesta curata da Vox propone il titolo Essere senza tetto è un lavoro a tempo pieno”, e vi si legge fra l’altro che «i prezzi degli affitti in quest’area tecnologica sono aumentati in maniera ben più rapida che nel resto del paese», per via della forte richiesta e delle strette normative per la costruzioni di nuovi alloggi. E pur se il problema degli homeless a San Francisco risale agli anni ‘80 (il primo centro d’accoglienza venne aperto nel 1983), oggi è in corso «un’epidemia di sfratti»:
Prima del 2011, ogni mese venivano sfrattate 300–350 persone, ora siamo a oltre 600. Dal 2013 gli sfratti in cui l’affittuario non ha commesso alcuna infrazione del contratto sono saliti del 115%.

(da indybay.org)
Mentre l’avanzata a testa bassa dell’high-tech è quantomeno una con-causa di simili problemi sul territorio, continuano tuttavia a essere sottovalutate le ricadute complessive dell’era digitale. Giusto per fare qualche esempio:

Dopo le rivelazioni di Snowden, sappiamo bene di essere sotto sorveglianza diffusa ma il messaggio generale è che non c’è nulla da temere; le maggiori piattaforme di social media continuano a consolidarsi e occupare altri spazi (fino al capitalismo-piattaforma); cresce il trend del passaggio dal PC a smartphone/tablet con tecnologie sempre più opache e basate sugli algoritmi, e l’annessa “balcanizzazione” della Rete (incluso l’ampliamento del Deep Web).

E ancora: già finito l’abbraccio tra movimenti di protesta quali Indignados e Occupy (o scenari tipo le Primavere Arabe) e i social media? Stanno forse emergendo app collaborative per amplificare o esaltare le manifestazioni di piazza? E a livello più individuale, che dire di una tecnologia che ci sommerge sotto una mole impressionate di dati? E delle continue corse all’aggiornamento di stato, all’estensione della cerchia dei follower e altre dinamiche di “reputazione”? Quali gli agganci (se esistono, o sono mai esistite davvero) di simili pratiche “narcisistiche” il legame con il quotidiano offline?
Si tratta insomma di proporre (o, meglio, rilanciare seriamente) una Net Critique ampia e articolata, di proporre quella critica a e di internet oggi apparentemente superata dalle spinte imprenditorial-economiche globali di cui sopra. Come avviene da tempo per la critica ai mass media dei nostri tempi (cinematografica, letteraria, culturale) dobbiamo riappropriarci di questi strumenti di lettura per (provare a) metterne in risalto le dinamiche meno apparenti e (cercare di) immaginarne gli scenari futuri.
Un approccio questo, attenzione, che non spetta unicamente ai ‘critici’ o agli ‘intellettuali’ (se mai esistono ancora), bensì all’intero popolo della Rete. Anzi, nell’attuale fase di stagnazione politico-culturale, tocca a ciascuno di noi elaborare e sostenere pratiche di riorganizzazione alternativa degli strumenti sociali in rete perché supportino i movimenti politici di base.
È quanto continua a suggerire fra l’altro Geert Lovink nel suo ultimo libro Social Media Abyss (di prossima uscita anche in Italia presso Egea, con traduzione del sottoscritto), che prosegue il percorso avviato nel 2004 con la fondazione dell’Institute of Network Cultures ad Amsterdam, oltre a docenze, interventi e libri successivi. E dove si affrontano in dettaglio domande scottanti, oltre a quelle accennate poco sopra, tra cui:

Come usare la Rete per rilanciare la politica e la cultura libertaria? Com’è possibile ripensare un modello comunicativo digitale senza subire l’omologazione dei social network? Cosa tiene insieme il culto del selfie e la passione per l’anonimato? In che senso la teoria critica è utile per la prassi politica in rete?

A riprova del fatto che, insieme all’impegno di molti altri ricercatori, esperti ed attivisti, esiste e cresce un movimento europeo per la critica alla cultura di Rete e alle sue trasformazioni (finanziamento dell’arte digitale, nuove forme di pubblicazione, estetica e politica dei video online, cultura dei motori di ricerca, riorganizzazione della conoscenza in rete). Mettendoci in guardia anche sui rischi di ‘retroguardia’ – in particolare rispetto a certe posizioni condivisibili ma fin troppo parziali o superficiali di critici Usa quali Sherry Turkle, Nicholas Carr, Andrew Keen o Jaron Lanier:
Poco ma sicuro: c’è bisogno di un approccio articolato per non cadere vittime della semplice rassegnazione del ‘romanticismo offline’ — posizione assunta fin troppo facilmente quando ci accorgiamo di non poter stare al passo e la routine prende il sopravvento.
Anche a rilancio delle critiche più articolate Rushkoff sul «tornado tecnologico… stanno intrappolando l’umanità intera», questo “laboratorio aperto europeo” rivela dunque un forte orientamento verso la prassi politica nelle pratiche comunicative digitali, integrando arte, mediattivismo e studi critici come strumenti di riprogettazione di una nuova convivenza civile, uno spazio di cittadinanza vivibile e inclusivo, non importa se urbano o online.
Proponendo altresì alternative concrete all’economia liberista e ai paradigmi di “colonialismo” digitale. Tra cui, per esempio, il MoneyLab di Amsterdam, un osservatorio sulle forme alternative di pagamento e gestione del denaro, oltre che sulle ‘economie del dissenso’ (ora che Bitcoin ha messo finalmente a nudo la propria anima elitaria e neo-con). E le varie realtà africane che andrebbero prese a modello proprio dal settore cyber ed economico occidentale, quali il successo del mobile money di M-Pesa, le animate discussioni online e la creazione di reti autogestite in Kenya, Uganda e altri paesi sub-sahariani.

Si tratta insomma d’insistere con la cultura critica del digitale in senso lato, con la decostruzione dall’interno del magma continuo di internet, con esperimenti di partecipazione civica. Un quadro che, per chiudere con alcune note “nostrane”, in Italia non sembra trovare troppa attenzione sia nell’ambito cultural-editoriale che nell’utenza di base. A livello “macro” le start-up innovative o i settori tradizionali ormai passati al digitale (come il giornalismo-informazione) sgomitano tra alleanze imprenditoriali e nuove trovate sostanzialmente finalizzate al “clickbait” (ignorando, per esempio, la strada dei micro-pagamenti ad articolo, così da superare anche culturalmente l’impasse provocato dal ‘tutto gratis’). Per non parlare di manovre a dir poco anacronistiche come la recente mega-fusione tra il gruppo de La Stampa e quello di Repubblica/Espresso.
Nell’epoca della decentralizzazione e del citizen journalism diffusi, si punta invece a ricreare regimi di monopolio utili soltanto agli interessi (e alle share di mercato) dei grossi gruppi editoriali e nient’affatto a quelli dei cittadini, degli ex-lettori, o della cultura in generale. Ancor più, ciò ribadisce il tradizionale approccio capitalista da pescecani e attori piglia-tutto menzionato all’inizio, teso a occupare spazio ovunque, attirare freelance e altri “precari” con buone idee ma costretti a lavorare per i Big pur di pagare l’affitto, e infine restringere o azzerare i progetti autonomi e dei singoli. Ciò appare particolarmente grave nell’odierno scenario digital-italiano, dove vanno comunque emergendo spinte innovative e maker d’ogni sorta, partecipazione civica e mondo open.
Già, proprio come scriveva pochi giorni fa qui su Medium me Eugenio Damasio qui su Medium:
Si apre un’epoca fatta di ritorno a dinamiche monopolistiche simili a quelle che Orson Welles , nel 1941, raccontava nel suo Citizen Kane. Un’epoca in cui, e non solo in campo giornalistico, la redistribuzione di ricchezza è sempre più limitata e i protagonisti rimangono invariati.
Oppure come diceva Emmanuele Somma, in riferimento ai “festeggiamenti” per i 30 anni di internet in Italia (i “pionieri” risalgono al 1986-7, l’era in cui dentro e fuori il Parlamento dominava la DC):
Bisogna dire le cose come stanno: di Internet in Italia non c’è nulla da festeggiare, tra censure di stato e velocità da paesi africani, tra provider imbroglioni e campioni solo di fuffa digitale. Vale la pena festeggiare la fiera delle vanità dei tanti parassiti che hanno salito — senza meriti — i gradini dei posti di comando? La rete in questi anni non è andata tecnologicamente avanti e ha fatto tanti passi indietro rispetto ai diritti digitali dei cittadini. Ma il peggio è che questa matrigna Italia incensa solo i furbetti e allontana chi è competente e appassionato.



Conclusioni possibili? Forse meglio pensare, più semplicemente e pragmaticamente, a percorsi praticabili sia a livello “macro” che individuali, fatti di trasversalità e contaminazione, decentramento e hacktivismo. Incluso magari un soggetto editoriale che sappia e voglia farsi carico delle istanze relative alla cultura e alla critica della Rete, rilanciando testi e notizie significative, coinvolgendo i protagonisti e le vicende italiane nelle dinamiche in corso a livello internazionali. Ben al di là di traduzioni casuali di libri da cassetta o simili estemporaneità come avvenuto finora.
Senza lasciare il campo in mano ad accademici, esperti o “intellettuali”, ma neppure ai circoli chiusi di correnti quali luddismo, situazionismo, marxismo e quant’altro, o limitarsi a dire “internet è politica”. Si tratta cioè di articolare/espandere le analisi proposte da autori come Rushkoff e Lovink, di riprendere esperimenti meno sexy come quelli di taglio “africano”, di superare collaborativamente il tipo approccio mainstream di privilegiare le “prime donne” alla Morozov (pur nella parziale rigorosità delle sue tesi sul “soluzionismo tecnologico”). Con l’obiettivo in progress continuo di offrire longreads, interventi, materiali di approfondimento, dibattiti aperti, conversazioni e così via. Un contesto più esteso (e la memoria storica) utili per stimolare al meglio l’eclettico ambito digitale nostrano, insieme a interventi collaborativi e strumenti bottom-up per una lettura meno ovvia e appariscente rispetto a un ampio ventaglio di referenti: dai professionisti super-indaffarati al mini-impero imprenditoriale, dai tantissimi individui interessati a capire meglio e darsi da fare fino ai nativi digitali e alla generazione Z sempre china sugli amati device “always on”.
Come scrivevo recentemente in un pezzo su CheFuturo per i 20 anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza del Cyberspazio di John Perry Barlow:
Proprio in un’epoca di massima centralizzazione di testate, socialità, contenuti. Un appello al monitoraggio attento sui pericoli dei lucchetti alla conoscenza e del controllo diffuso, entrambi ormai integrati nei gadget di uso quotidiano. Un invito pressante ai cittadini vecchi e nuovi del cyberspazio a (ri)prendere in mano il ‘bene comune internet’, per attivarne al meglio le potenzialità creative e la partecipazione dal basso sul territorio. Insieme all’importanza di un approccio critico sul digitale nel senso più ampio, altra specie in via d’estinzione nell’online odierno. … Perché, altro motto tipico in Rete negli anni della Dichiarazione di Barlow e meritevole di un attento revival: what it is > is up to us.

Note per la cultura - 6 - A volte capita di pensare, scrivere, agire ...

Serietà, a proposito della fatica del concetto. Gli stereotipi sulla realtà confliggono con il rigore di un pensiero esplorativo, indagatore, che tutto è propenso a spiegare senza pretendere di poterlo, esaustivamente, fare. La serietà risiede nella consapevolezza dei limiti, di lucide demarcazioni e dell'empiria e della ragione. L'esperienza conoscitiva non può che essere soggettiva, mai risolvendosi nel solipsismo. L'uso adeguato della ragione consente di superare i confini del “soggettivismo” aprendosi all'accertamento dimostrativo, alla diagnosi dei fatti dei quali ci si occupa, alla conquista di verità che allude all'oggettività, stabiliti metodi, criteri, lessico esplicativo e verificata la tenuta teorica di quanto si va ad apprezzare cognitivamente. 
Serietà intellettuale è, dunque, un sistema che integra l'intelligenza all'etica, genera le condizioni della ragione, orienta verso un atteggiamento disciplinato che non si fa irretire da scorciatoie pseudoculturali, da suggestive intuizioni, da esigenze personali, da squallidi interessi di supremazie pseudointelletuali. Serietà è umiltà, è immersione nella realtà, priva di forzature o velleità, è pronta revisione di percorsi erronei di conoscenza, è aprirsi all'incondizionato. La premessa alla serietà è la libertà, come autonomia di giudizio e come assunzione esplicita di responsabilità. Ogni deroga interpretativa presta il fianco all'ambiguità, ad una semantica distorcente, deviante, compromissoria. La matrice della conoscenza è l'onestà intellettuale, il libero ricercare che si oppone all'accondiscendenza o all'ignavia. La fatica del comprendere la realtà è spia rivelatrice d'una serietà colta operativamente nel suo incedere autorevole ed utile stratificando informazioni, creando un palinsesto – suscettibile di modifica ed integrazione – di significati che apre al “senso” ultimo dell'attività conoscitiva umana. La verità è dentro (si nasconde) un ricettacolo di artefatti di pensiero, un contenitore gnoseologico dell' “umano”, rappresentando la linea di separazione tra la logica e l'approssimazione retorica, tra dialettica ed i dogmi.