menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

martedì 10 gennaio 2017

Zygmunt Bauman, un pensiero errante nel flusso della società

È morto a Leeds, all’età di 91 anni, il sociologo e filosofo polacco. Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.

Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.
OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra.
E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute.
Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera.
 
FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli.
È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito.
Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi.
TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni.
CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.
SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato.
È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.
BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno.
Fonte:

Osservare e raccontare le principali dinamiche sociali dell’ultimo mezzo secolo ha portato Zygmunt Bauman all’elaborazione di un pensiero organico sull’epoca in cui stiamo vivendo. E probabilmente il suo pensiero è il più lucido e valido a cui possiamo affidarci oggi. Nato in Polonia nel secondo decennio del Novecento da una famiglia di origini ebree, Bauman ha assistito all’occupazione nazista del suo Paese ed è fuggito in territorio sovietico, dove si è arruolato per opporsi al dominio tedesco. Al termine della guerra, ha studiato sociologia e ha cominciato ad occuparsi di sociologia del lavoro, di socialismo e delle relazioni tra pensiero moderno e Olocausto (Modernità e Olocausto, 1992). Inizialmente di impostazione marxista, Bauman si è avvicinato progressivamente alle posizioni gramsciane e ha così cominciato a pubblicare i suoi studi su riviste destinate a un pubblico vasto, di certo non specialistico, per contribuire alla formazione di una cultura compartecipata e aperta alle masse. Nel corso degli anni si è occupato anche di negazionismo e ci ha messo in guardia contro il pericolo dell’autoassoluzione e della rimozione delle responsabilità storiche che hanno portato all’eccidio del popolo ebraico – e, si potrebbe aggiungere, a tutti gli eccidi degli ultimi due secoli.
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La «società liquida». È soprattutto a partire dagli anni Novanta, tuttavia, che Bauman intravede quei processi di trasformazione che si sono pienamente sviluppati negli ultimi decenni. In quel periodo lo studioso si accinge a descrivere e a spiegare ciò che nota, mettendo i suoi contemporanei davanti allo specchio senza ombre di un’analisi acuta. Nel 1995 pubblica Life in Fragments. Essays in Postmodern Morality, nel 2000 Liquid modernity (Modernità liquida, Laterza, 2002), nel 2005 Liquid life (Vita liquida, Laterza). Insieme al nuovo millennio nasce l’espressione “società liquida”, che Bauman conia per usarla in opposizione alla “società solida”, dotata di ideologie di riferimento, e caratterizzante la modernità novecentesca. Il postmoderno, l’epoca degli anni zero, è invece un tempo senza gerarchie, un tempo “mobile” e incerto, in cui i legami tra gli esseri umani sono diventati labili (Liquid love è il titolo di un altro saggio del sociologo). Nella società liquida l’individuo non è più un “produttore”, bensì un “consumatore”. Non sogna più di possedere quanto è necessario per la sua esistenza, ma vuole avere il superfluo, poiché gli status symbol sono diventati essenziali per l’accettazione sociale. I saggi del ’95 e del 2000, a cui si potrebbe aggiungere anche Globalization. The human consequences (Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone), uscito nel 1998, costituiscono le pietre angolari della sociologia contemporanea e continuano ad essere validi anche oggi. La grandezza di Zygmunt Bauman è espressa dalla sua capacità di rendere consapevole il prossimo di ciò che sta vivendo.
La vita online e offline. Il 18 e il 19 settembre è stato ospite del Festival Filosofia, una kermesse itinerante che si svolge in Emilia Romagna, da Carpi a Sassuolo. Insieme a lui è intervenuto anche Ezio Mauro, direttore di la Repubblica, con il quale Bauman ha scritto a quattro mani Babel, di recentissima pubblicazione. Il soggetto messo a fuoco all’evento emiliano è quello degli effetti del mondo virtuale sul mondo reale, sull’educazione e sulle relazioni tra persone. Nel corso del suo intervento, Bauman ha parlato di due “quartieri”, quello fisico in cui risiediamo, e quello online, a cui accediamo tramite Internet. Nel primo siamo sottoposti a una serie di condizioni che ci è impossibile cambiare e a una serie di regole (di convivenza civile) da cui non si può sfuggire. Nel secondo, invece, siamo noi a dettare le regole. La rete virtuale è un sistema che controlliamo interamente: decidiamo con chi tenerci in contatto, chi annettere ai nostri “Amici”, chi cancellare dalla lista. Non possiamo fare lo stesso con i vicini che abitano alla porta accanto. La loro presenza non dipende da una selezione del mouse. La realtà, dunque, tende ad essere avvertita dall’uomo internauta come una dimensione impositiva che sfugge a qualsiasi tipo di controllo. Al contrario, la virtualità della rete è completamente controllabile, dunque gratificante e piacevole. Freud avrebbe parlato di opposizione del principio di realtà al principio del piacere. Ma ciò che in psicoanalisi si definisce trasgressione (reale) alle regole di vita sociale e familiare, in sociologia è diventato, al suo stadio più grave, alienazione. Bauman afferma: «Tutti noi senza eccezione viviamo adesso, a intermittenza ma assai spesso simultaneamente, in due universi: online e offline». Ciò ci conduce all’interno di un labirinto di specchi, in cui la nostra immagine ci viene restituita moltiplicata e deformata. La doppia esistenza che conduciamo influisce sulla nostra identità, su ciò che decidiamo di privilegiare, il profilo di un account social o l’aspetto con cui ci presentiamo alle altre persone. La scissione della vita in due luoghi, di cui uno è tangibile, mentre l’altro è meglio definito come “non-luogo”, è lesiva nei confronti della formazione di identità forti.

Identità, morale, società. La debole definizione delle identità personali, un processo che avviene attraverso l’auto-riconoscimento e il confronti con l’altro, conduce, a sua volta, alla disgregazione della società, per come la conoscevamo, vale a dire, la società intesa come aggregazione di individui consapevoli di lavorare e collaborare per il benessere comune e il mantenimento dell’ordine. Per spiegare meglio quest’ultimo passaggio, occorre rifarsi a ciò che Bauman intende con “morale” – e che ha rielaborato a partire da altri filosofi: la morale è l’impulso ad essere per l’altro, a darsi all’altro qualsiasi sia il comportamento da questi tenuto. Un atto morale, per essere tale, implica però la presenza di un “io” che decide autonomamente di affidare il controllo ad un “tu”, che in ultima analisi coincide con la società intera – essendo la società un “Tu” plurale con cui ogni soggetto entra in contatto. Perciò, se manca un “io”, manca anche l’atto morale, e con esso una società in grado di agire a favore degli individui che la compongono.
Favorire l’interdipendenza (reale). Il venir meno dell’identità impedisce anche di andare incontro all’altro non come a una persona dramatis, cioè come a una maschera, ma come a un volto, a un’altra identità. E questo aspetto è riscontrabile nell’atteggiamento di alcuni soggetti e di interi Stati nei confronti dei migranti. L’intervento di Zygmunt Bauman a Modena (18 settembre, con Ezio Mauro) e a Carpi (19 settembre) può essere idealmente integrato da un’intervista cronologicamente anteriore e rilasciata a Antonello Guerrera, per la Repubblica. Bauman aveva espresso la sua opinione in merito al dramma dei migranti e aveva osservato che l’unico modo possibile per uscire dall’emergenza sarebbe stato quello di raggiungere l’«interdipendenza», a livello europeo, ma non solo: «Trovare vere soluzioni ai problemi reali». Ora, l’“interdipendenza” di cui si parla è, ovviamente, una interconnessione reale e tangibile, non quella della rete online. Anzi, per raggiungere una vera interdipendenza tra popoli, o una «fusione degli orizzonti», come direbbe Bauman, occorre che l’individuo si riappropri del posto che gli spetta all’interno del suo quartiere cittadino, uscendo pertanto da quello virtuale. Bauman sembra volere sfruttare le dinamiche di interdipendenza del web, per applicarle tuttavia come “medicina” alle fratture del mondo moderno. Bisogna perciò uscire dalla «prigione del benessere» e rinunciare alla finta sicurezza della dimensione virtuale, per ritrovare il vero dialogo.
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venerdì 6 gennaio 2017

Il regime del salario

By FERRUCCIO GAMBINO

Prefazione Il regime del salarioPubblicato Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato (casa editrice Asterios di Trieste) che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi la prefazione di Ferruccio Gambino.
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Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
Molti commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso, una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo intermittente.
Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010 il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder (cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea. Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
http://www.asterios.it/
 La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della Bundesbank.
Fin dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo (governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.
Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla trasmissione della vita.

PREFAZIONE DI FERRUCCIO GAMBINO



Bio-image and General Intellect: can images transform bodies?

This text results from KAFCA (Knowledge Against Financial Capitalism) conference, which was held in Macba, Barcelona, 1-3 december, 2011.

In spring 2011, hundreds of migrants arriving from revolutionary Tunisia to Paris opened a harsh conflict within the metropolis, reclaiming the right to circulate freely, and the right to have rights. In November 2011, the Central Tunisian Bank decides to state explicitly its independency in the lawconcerning public powers. « If we do nothing, it simply becomes the death of revolution », a Tunisian Comrade says.
But beyond the catastrophe, the « Occupy » global movement - starting from revolutions in Maghreb and Mashrek, until Spanish acampadas, and all the occupations that are taking place all over the world - teaches us, that we experience a new temporality : the temporality of crisis and the temporality of global becoming. How do the « occupy-bodies » struggle against their financial captation, and transform singular micro-politics of resistance in a common power to act against it?How do they re-appropriate, through bodies and images, their wealth and potency and that produced, generated, created by bodies, from within, but against financial capitalism ?
As an example, the concentration of economic, political and media powers in the hands of one single man determined, in Italy, a homologation of modes of subjectivation which constitutes an anomaly of violence : it has normalised the social body, and fragmented it, in order to control it. It is therefore necessary to develop our understanding of how images have performed, during the last thirty years, this in-formationof bodies. There seems to be a specific mode through which one builds his or her body, a mode determined by an extreme power of normativity and, on the contrary, there seems to be also, coming from below, an empowering capacity of subjective and collective constitution. At the horizon, there is the necessity to re-appropriate our lives, our bodies, through the re-appropriation of our commonwealth.
I would like here to draw just one line in the midst of the multitudinary network of resistances to financial appropriation of the material and immaterial wealth that we are producing. At this purpose, I will show two examples of generation of life through images, beyond the opposition between the notions of production and that of creation, on the basis of some distinctions between these two concepts. What I would like to concentrate on, is to understand how to evade the financial captation of our immaterial wealth – what constantly results from our creation and our potency – building new powerful relations between images and bodies.
Karl Marx called « general intellect »,in the « Fragment on Machines »,widespread social knowledge that capital exploits especially for the purposes of its technological development1. Paolo Virno writes, in regard to the Postfordist mode of production, that living labour « embodies the general intellect » , or « social brain », and this « social brain » is no longer embedded in machines, and no longer coincides with the fixed capital, but rather coincides with thelinguistic cooperationof a multitude ofliving subjects:
In Postfordism, conceptual and logical schema play a decisive role and cannot be reduced to fixed capital in so far as they are inseparable from the interaction of a plurality of living subjects. The ‘general intellect’ includes formal and informal knowledge, imagination, ethical tendencies, mentalities and ‘language games’. Thoughts and discourses function in themselves as productive ‘machines’ in contemporary labour and do not need to take on a mechanical body or an electronic soul. The matrix of conflict and the condition for small and great ‘disorders under the sky’ must be seen in the progressive rupture between general intellect and fixed capital that occurs in this process of redistribution of the former within living labour2.
Today, financial capitalisminfinitelyregeneratesitselfbyitself, and it does so, not only by the means of languages, but also by the means of knowledge, and the movement of life and images. This means, that there is a performative injunctiontobiologicalregeneration of servitude. Bodies are morphologically shaped by capital which reproduces itself, by means of the flesh. 
It works through an infinite biological reproducibility of body-images.What, then, are the possible strategies that a body can implement, in order to destroy from within its visual performative injunction to reproduce its own enslavement? Embodied images are devices of financial power, but they can also be empowering for bodies, when they are free. What are the images that destroy from within the bonds of capitalistappropriation? How to tearoffthe devicesandmediaimages thatare embedded (incorporated, prosthetized) in our bodies?
 
1. From the infinite technical reproducibility of images to their infinite biological reproducibility
Justlike languages, images « generate conscious movements, or social automatisms, or political systems », to say it with Franco Berardi and Alessandro Sarti3. Images build the visible, like biotechnologies build living organisms. Images generate forms in continuity with the living, of which they are visible and material extensions, because « nothing is representative, but all is life and processes of becoming », with Deleuze’s words. If words, discourses and narratives are performative (they act), images are performative in the sense that they can change the real. Our hypothesis is that, beginning from the 1950s, global media system works in a self-referential and autopoietic way, using recursively the image that it has of itself. This system does more than just reproducing bodies as if they were things – through technical and technological reproduction of images -, but it reproduces itself by itself, it regenerates itself, just like a living body. In fact, that of images is not only an « inert » platform – paper, screen, pixel – but a living support : bodies are employed as the platforms of reproduction ; in particular, women’s bodies, migrant’s bodies and marginal bodies.
- Technobiological dynamics. If we consider the important fact of technical reproducibility of images – analyzed at the beginning of last century by Walter Benjamin4-, we experience, since the 50s, the passage from the infinite technical reproducibility of images to their infinite biological reproducibility. The invention of bio-imaging, in that period, is paradigmatic.
Fig. 1 « In the magnified breast tissue above, cancer cells appear lighter. From confocal microscopy of small regions (boxes) the daVinci program constructs images of individual cell nuclei like those at very top; specific genes are labelled with fluorescent probes.5»
 
Images become devices of capture of the living, but also devices of production and reproduction of life itself, of bios. This is not only a question of change/crisis of modern monetary, economical and cultural parameters. These allowed Nation-states to control populations over the production of bodies and images, on the behalf of political and aesthetic representation. We are talking about a more profound dimension, which is the radical change occurred in the form of valorization of images and bodies, as well as a radical change of the exploitation devices, in which consisted modern representation (as Diego Velàzquez has taught our eyes in the XVII century).
The economic exploitation of man by man will the more and more be exerted through media in what can be considered as the beginning of Postfordism6. The new dynamics can be qualified as techno-biological, and it articulates the capitalist need of reproducing and extending itself through bodies, embedding slavery in each of them. Exploiting the regenerative and reproductive attitude of life – living, carnal, affective labour -, cognitive capitalism transforms bodies from within, from their substance.
- From production to creation of bodies and images. In the 1960s, we can see, in the larger context of the globalizing capitalist countries, that a change occurs in the modes by which powers are exerted, in the government of bodies. We pass from disciplinary societies to control societies : societies in which individuals are the more and more controlled by within their imaginaries and their practices of subjectivation7. Visual norms of morphological conformation will start to build bodies, on the basis of the technological revolution articulated with - in a quasi simultaneous way - the media import of a Playboyimaginary: a pornotopic imaginary8.
Contemporarily, labour gradually feminizes. This means, that it acquires the same characteristics that have defined, historically, women's work : not recognized, unpaid work, variable, invisible work, black work, affective and sexual work9. Life put to work is what characterizes the regime of the infinite reproduction of slavery in the neoliberal rationality. We can easily notice that progressive feminization of work and slavery corresponds to a major function of capitalism, which is that of reproduction of work and slavery. We shall seesome essentialrelationsbetweencapitalistic accumulation, technology, bodiesat work andimages, allcenteredon the notions ofreproduction, representation, and regeneration. Someof these relations areclearlypower relations, but we must not forget(and that is why we are here) thatbecause thesepowersmay exist, they need the vital part they appropriate, that of bios, that of living and loving bodiesthat can, on the other side, extend their potency bysplittingthe chainsof bioeconomic slavery.
The articulation between these elements produces a global machine of visual control over bodies and of visual production of bodies. The new extraordinary visual machine has the power to transform the facesand the body of each individual through its gigantic productive eye. We have come to the specification and transformation of the real in a hard-core real: the complete media exploitation of affects, of sexuality, of bodies, coupled with the progressively privatized political space, the more and more devoured by finance. What about this visual production ? What difference, between the capitalistic bio-visual production and a common liberating bio-visual creation ?
The concept of reproduction of body-images, as we will explain later, means that the phenomenon of the infinite technical reproducibility of images (highlighted by Walter Benjamin at the beginning of mass culture) starts to become, in the 50s – 60s, an infinite biological reproducibility of images, and an authoritarian injunction to biological reproduction and regeneration of bodies on the modes and to the purposes of the advanced capitalism. But what about the word « reproduction » ? We must here make a distinction between two radically different modes of this function. Representation works as a bond with our bodies and it is performed through the violence of an infinite reproduction of separations, exclusions, as forms of control (biopower). On the other side, the crisis of political representation takes form in the Occupy places throughout the world, as a desire of transformation, beyond the Nation-state, and beyond its discourses. Here reproduction is not a repetition, it works against mimesis and against identification of subjects in fixed roles, as a living creation of life and of common political possibilities.
- The bio-visual autopoïesis. If words do things, images do things too : they transform bodies. During the last decades, the construction of a specific morphologically determined social body, serving the progressive process of capitalization of life crossed with feminization of work has worked out through a visual auto-reproduction : a bio-visualautopoïesisof the capital through bodies and images.
The autopoïesisis, in its simplest definition, the characteristic of a system which reproduces itself by itself, so as to maintain its structure even though its components change. Autopoïetic systems, as described by Chilian cognitivists Humberto Maturana and Francisco Varela, are « An autopoietic machine is a machine organized (defined as a unity) as a network of processes of production (transformation and destruction) of components which: (i) through their interactions and transformations continuously regenerate and realize the network of processes (relations) that produced them; and (ii) constitute it (the machine) as a concrete unity in space in which they (the components) exist by specifying the topological domain of its realization as such a network10. »
It is a self-referential system, a system capable of using recursively the image that it has of itself : it does not only reproduce bodies like things, but it reproduces, through biological reproduction of bodies, its own system, its own net.
Here stands the difference between two kinds of autopoïesis. From one side, capital reproduces itself mimetically, excluding any alterity by subsuming the whole real : it is the production and the visual reproduction (representative, repetitive, mimetic, schematic) of an autoreferential system based on financial criteria to measure life. It is the difference between the autopoïesis of the capital (the borders of the hegemonic network) and the creation of life. The first border (and order) is auto-produced today by the bonds of financial governance, extracting intelligence from bodies, and the infinite biological reproduction of life and images means immediately an infinite reproduction of debt over life. In fact, this mechanism plays within an eschatological temporality, based on indexes of prefiguration, processes of revelation, promises, a pre-visual(in a temporal sense) dimension based on temporal bets and financial speculations. On the contrary, the second kind of autopoïesis performs figurations, constantly creating itself, open : the word poïesiscomes from the Greek auto and poiesis,creation.
The global financial crisis that we are living in, since 2008, isalso a crisis of the auto-reproductive and autopoietic mechanism of capital. The generalization of precarity and poverty implies a lack of social, biological and creative reproduction. This is the contradiction of bio-economic and cognitive capitalism and here is the crisis : a crisis of the capacity of capital to reproduce while it increases the exploitation of life.
 
2. Revealing/creating revolution
- Forecasting revelations. In the substance and in the very way images are build there is something biological. Photographs are techno-biological devices: light is necessary to impress a form on a support, thanks to abonding animal agent : an organic glue fixing light with silver. A photographic impression can last hours : it is life and time embedded in materiality. The organic molecules are spectral sensitizers. Starting from the invention of X rays, and then, bio-imaging technologies, light itself will be produced by technologies of visualization of the interior of a body - and not anymore only by exterior light capturing exterior forms. Images reveal the existent, and this process of revelation of life comes from below : an inside light coming from the interior of the bio-technological device, which is the latent image. Then, it is necessary to apply chemical processes of revelation (development, generation) to the film, to have a stable image.
Furthermore, with bio-imaging, starting from the 50s, if technique can intervene in the processes of biological generation through biogenetics, this seems to be a visual phenomenon. The recombinant model is a generative model that images and life have in common. Technique can interfere in the biogenesis using procedures, which have developed in the realm of images. In this sense, we can talk about some constants, in the biogenetic realm, ways of functioning through visual editing. Therefore, we can assume that, capitalistic autopoïesis (mimetic auto-reproduction) works through a specific biogenetic visual grammar. The possibility to describe biogenetic processes as visual processes becomes an epistemic foundation for all the biotechnological developments. If, starting from the 1950, the analogy between information and life becomes the more and more frequent, why wouldn’t we consider also the analogy between image and life ? The biogenetic process would be the actualization of a code, the deployment of aninformationin spaceand time, spread acrossavisualrevelation/detectiondevice or mediasupport.
This revelationor detectiondevice can be a biological body or an artificial body (as for machines like robots). Therefore, it seems to us necessary, considering the visual saturation of our era and starting from the developments in molecular biology, to point the necessity of explaining life as a visual phenomenon.
The semiotization of biological generation becomes a biologization of images, not only of language. From one side, digital simulation of life needs its visual production. From the other, the very informational biogenesis is a generative process. Here are two different processes, whose node is the re-production : a biological and visual phenomenon, at the same time11. The production of genetic material is inoculated in living organisms : computer simulation intertwined with biological modelling shows that an image can generate and transform life. The morphogenetic bio-image is necessary to the synthetic bio-morfogenesis12. When visualizing “biogenetic grammar”, life appears as an editing of images, on the basis of a code. Mapping human genetic constitution, means then, organizing a set of visual enunciations. The generative bio-editing is made of a complex intertwining between language, images and bodies. Visual reproduction takes the form of biological generation. This visual reproduction, which is, at the same time, biological generation, is produced by the creative potency of the general intellect and then captured by the systems of financial valorization, expropriated for the regeneration and reproduction of the capital itself, infinitely. Our point is, therefore, to understand how to re-appropriate our bio-visual generation, against the perverse performative capitalist injunction to regenerate capital itself. In this scenario, revelations are continuously forecast by financial agencies : rating agencies continuously forecastwaves of depth and speculation, therefore, they producedebt and speculation over depth. The technologies of forecast (global machines of control such as Standard and Poor’s and Fitch) induce waves, processes of accumulation, heterogeneous stratifications.
- Creating revolution.
  
Fig. 2Anonymous, A Young Tunisian Who Burned Himself,4 January 2011 – Sidi Bouzid, Tunisia Fig. 3Unknown, Puerta del Sol - #SpanishRevolution, 17-05-2011- Madrid, Spain
 
If media images are also biological images, the technical automatism is articulated to an image which can last a life, articulated with the deposit of time between an image and an other, so as the deposits of biological substances and natural light on inorganic supports. These inorganic supports or inert material platforms use to work as a fixed capital in the industrial era that Marx describes (would it be in Duchamp, in photography or in cinema) separated from the variable capital that was the visible resultof the image - the visible surface of revelation, coming from below. These elements are today articulated with life as a permanent support, when the substance of an image is a body itself, as for Mohamed Bouazizi self-immolation anonymous photograph on the 4th, January 201113.
Anelliptic visual « biopic », an image of a body captured in a state of transformation, and, in the other, an image of an insurrectional Plaça del Sol (Madrid, 15 may 2011). In a glance, appears, in our political eye, the image of a whole insurrectional generation : a technical body, an inert body, a material body, a revealing-collective body, the general intellect. The articulation of techno-political-mediatic aspects determine living effects which do not only « give visibility », « illuminate » the real, but who do createthe real, against the financial forecasts (revelation as promise, eschatology, pre-vision). These images are biological because they are constituted and linked one to the other by the biological temporality of a common becoming, in the rapid lightening of the temporality of revolution. They articulate, therefore, biological revelations together with bio-imaging modes of production. No more inert supports as machines, but living platforms of bodies at work : this is the infinite biological reproducibility of images.
Revelation is something about newness, it is not the discovery of something which existed before and that was just hidden under the surface, revelation is creation. Revelation of a body is, therefore, creation of a body: it is generation in the most creative sense of the notion.
The neoliberal media-economic-political imperative of the infinite biological reproduction of servitude is a process centred on power of bonds over life, through embeddings of privacy, inertia, insensitiveness inoculated in bodies treated as financial platforms within corporations, and debt over life in its most carnal characteristics. Some biopolitical examples of images show how these very bio-images torn the necropolitical imperatives and the apocalyptical forecasts, and organize its vital elements in a common biopolitical creation of life.
 
3.The biopolitical image, between an alreadyand a not yet
Fig. 4 Gustave Courbet,La Vague,1866
 
The global movement goes forth. It is innovation and change of corporeal, spatial, material, epistemological dimensions, disproportionately, exceedingly. The global wave exceeds itself at the same time it rises, that is to say when it's here: the global wave is the restless, unquiet undulation of the autopoietic movement, that by which the subject builds itself, restlessly. If the wave breaks temporality between the eternal (what is « before » what is about to start) and innovation (what is « after » what begins here), its material field consists in all the events that define it by transformation, that of the becoming-body of a multitude of monads of bio-images - the general intellect constituted by a multitude of single bodies. All the events that build the multiple becoming-body constitute the material field of the bio-image,here and now. This field is the place in the image and the place of temporality where the body produces something, where the body materially produces its field in each singular body-predicate that innovate and create it, at the same time - the series of Courbet’s Waveslike the global wave of occupiers. It is a materialistic field, a resistance field between the body and the undulation of the process of knowledge, as the materiality of general intellect resists, while undulating: the bio-image has a corporeal intensity. Here is the paradigm-virtue of resistance to fate and thus to the linear representation of time and corporeal homogeneity.It is this resistance to any transcendentalism and any predetermination, which is virtue, as an active constitution of the world. If this virtue comes from a will - a will to constitution - it asserts itself immediately as political, and its potency immediately becomes political power of transformation. The subjective and collective affirmation of potency implies an ethical, political and necessarily materialistic statement: the active transformation of substance, of flesh, of power relations, in the temporality of change - courageous openness to risk. Temporality is made as unquiet and restless praxis of Kairòs, which produces truth and subjectivities in the corporeal immersion14. Between Aliaa’s body, who speaks and acts, and what her image says and acts, there is the same unquiet undulation defining the « here » in the field of knowledge and the « here » of the footstool, which is the co-production of this body, this epistemological field and the material footstool. It is the body that produces, as power of determination, the reflexivity of the globalized image as a material field of production, between an « already » and a « not yet »: the difference is reflexive and fully active, generating disproportionately, but embodied. This is the ontological difference of temporality, the fact of being productive - of this singular body – from resistance to resistance, from body to body, from wave to wave, caught in the material and common field of their constitution : the praxis of time.
The genesis of this image, for the common of all the bodies, is that of expression and imagination, that is to say, a biopolitical image.
 
Notes:
1Karl Marx, « Fragment on Machines » (1858), Grundrisse, London, Penguin Books, 1974.
2Paolo Virno, « General intellect », in Lessico Postfordista, Rome, Feltrinelli, 2001, translated by Arianna Bove. http://www.generation-online.org/p/fpvirno10.htm. I emphasize.
3See Franco Berardi, Alessandro Sarti, Run Forme Vita Ricombinazione, Mimesis, 2008.
4Walter Benjamin, « The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction», 1936. See http://www.marxists.org/reference/subject/philosophy/works/ge/benjamin.htm
5« Seeing the Cell Nucleus in 3-D », Berkeley Lab Research Review,http://www.lbl.gov/Science-Articles/Research-Review/Magazine/2000/Winter/features/01seeing.html
6See ChristianMarazzi, La place des chaussettes, Ed. De L’Eclat, (Trad. F. Rosso, A. Querrien)1997.
7See Michael Hardt, « La société mondiale de contrôle », inÉ. Alliez (dir.), Gilles Deleuze une vie philosophique, Le Plessis Robinson, Les Empêcheurs de penser en rond, 1998, p. 359.
8As Beatriz Preciado calls it in Beatriz Preciado, Pornotopie- Playboy et l’invention de la sexualité multimédias, Climats, 2011.
9See Cristina Morini, Per amore o per forza – Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, OmbreCorte, 2010.
10Humberto Maturana, Francisco Varela, Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, Dordrecht, Reidel, 1980, p. 78.
11Franco Berardi, Alessandro Sarti, op. cit., p. 32
12Idem, p. 32-33
13Mohamed Bouazizi was a 28-year-old university student who burned himself alive when the Tunisian authorities confiscated the fruits and vegetables he was selling to feed his family.
14I am thinking on the wave of Antonio Negri’s Kairòs, Alma Venus, multitude, translated by Judith Revel, Paris, Calmann-Lévy, 2001.