menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

martedì 10 gennaio 2017

Zygmunt Bauman, un pensiero errante nel flusso della società

È morto a Leeds, all’età di 91 anni, il sociologo e filosofo polacco. Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.

Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.
OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra.
E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute.
Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera.
 
FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli.
È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito.
Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi.
TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni.
CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.
SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato.
È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.
BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno.
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Osservare e raccontare le principali dinamiche sociali dell’ultimo mezzo secolo ha portato Zygmunt Bauman all’elaborazione di un pensiero organico sull’epoca in cui stiamo vivendo. E probabilmente il suo pensiero è il più lucido e valido a cui possiamo affidarci oggi. Nato in Polonia nel secondo decennio del Novecento da una famiglia di origini ebree, Bauman ha assistito all’occupazione nazista del suo Paese ed è fuggito in territorio sovietico, dove si è arruolato per opporsi al dominio tedesco. Al termine della guerra, ha studiato sociologia e ha cominciato ad occuparsi di sociologia del lavoro, di socialismo e delle relazioni tra pensiero moderno e Olocausto (Modernità e Olocausto, 1992). Inizialmente di impostazione marxista, Bauman si è avvicinato progressivamente alle posizioni gramsciane e ha così cominciato a pubblicare i suoi studi su riviste destinate a un pubblico vasto, di certo non specialistico, per contribuire alla formazione di una cultura compartecipata e aperta alle masse. Nel corso degli anni si è occupato anche di negazionismo e ci ha messo in guardia contro il pericolo dell’autoassoluzione e della rimozione delle responsabilità storiche che hanno portato all’eccidio del popolo ebraico – e, si potrebbe aggiungere, a tutti gli eccidi degli ultimi due secoli.
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La «società liquida». È soprattutto a partire dagli anni Novanta, tuttavia, che Bauman intravede quei processi di trasformazione che si sono pienamente sviluppati negli ultimi decenni. In quel periodo lo studioso si accinge a descrivere e a spiegare ciò che nota, mettendo i suoi contemporanei davanti allo specchio senza ombre di un’analisi acuta. Nel 1995 pubblica Life in Fragments. Essays in Postmodern Morality, nel 2000 Liquid modernity (Modernità liquida, Laterza, 2002), nel 2005 Liquid life (Vita liquida, Laterza). Insieme al nuovo millennio nasce l’espressione “società liquida”, che Bauman conia per usarla in opposizione alla “società solida”, dotata di ideologie di riferimento, e caratterizzante la modernità novecentesca. Il postmoderno, l’epoca degli anni zero, è invece un tempo senza gerarchie, un tempo “mobile” e incerto, in cui i legami tra gli esseri umani sono diventati labili (Liquid love è il titolo di un altro saggio del sociologo). Nella società liquida l’individuo non è più un “produttore”, bensì un “consumatore”. Non sogna più di possedere quanto è necessario per la sua esistenza, ma vuole avere il superfluo, poiché gli status symbol sono diventati essenziali per l’accettazione sociale. I saggi del ’95 e del 2000, a cui si potrebbe aggiungere anche Globalization. The human consequences (Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone), uscito nel 1998, costituiscono le pietre angolari della sociologia contemporanea e continuano ad essere validi anche oggi. La grandezza di Zygmunt Bauman è espressa dalla sua capacità di rendere consapevole il prossimo di ciò che sta vivendo.
La vita online e offline. Il 18 e il 19 settembre è stato ospite del Festival Filosofia, una kermesse itinerante che si svolge in Emilia Romagna, da Carpi a Sassuolo. Insieme a lui è intervenuto anche Ezio Mauro, direttore di la Repubblica, con il quale Bauman ha scritto a quattro mani Babel, di recentissima pubblicazione. Il soggetto messo a fuoco all’evento emiliano è quello degli effetti del mondo virtuale sul mondo reale, sull’educazione e sulle relazioni tra persone. Nel corso del suo intervento, Bauman ha parlato di due “quartieri”, quello fisico in cui risiediamo, e quello online, a cui accediamo tramite Internet. Nel primo siamo sottoposti a una serie di condizioni che ci è impossibile cambiare e a una serie di regole (di convivenza civile) da cui non si può sfuggire. Nel secondo, invece, siamo noi a dettare le regole. La rete virtuale è un sistema che controlliamo interamente: decidiamo con chi tenerci in contatto, chi annettere ai nostri “Amici”, chi cancellare dalla lista. Non possiamo fare lo stesso con i vicini che abitano alla porta accanto. La loro presenza non dipende da una selezione del mouse. La realtà, dunque, tende ad essere avvertita dall’uomo internauta come una dimensione impositiva che sfugge a qualsiasi tipo di controllo. Al contrario, la virtualità della rete è completamente controllabile, dunque gratificante e piacevole. Freud avrebbe parlato di opposizione del principio di realtà al principio del piacere. Ma ciò che in psicoanalisi si definisce trasgressione (reale) alle regole di vita sociale e familiare, in sociologia è diventato, al suo stadio più grave, alienazione. Bauman afferma: «Tutti noi senza eccezione viviamo adesso, a intermittenza ma assai spesso simultaneamente, in due universi: online e offline». Ciò ci conduce all’interno di un labirinto di specchi, in cui la nostra immagine ci viene restituita moltiplicata e deformata. La doppia esistenza che conduciamo influisce sulla nostra identità, su ciò che decidiamo di privilegiare, il profilo di un account social o l’aspetto con cui ci presentiamo alle altre persone. La scissione della vita in due luoghi, di cui uno è tangibile, mentre l’altro è meglio definito come “non-luogo”, è lesiva nei confronti della formazione di identità forti.

Identità, morale, società. La debole definizione delle identità personali, un processo che avviene attraverso l’auto-riconoscimento e il confronti con l’altro, conduce, a sua volta, alla disgregazione della società, per come la conoscevamo, vale a dire, la società intesa come aggregazione di individui consapevoli di lavorare e collaborare per il benessere comune e il mantenimento dell’ordine. Per spiegare meglio quest’ultimo passaggio, occorre rifarsi a ciò che Bauman intende con “morale” – e che ha rielaborato a partire da altri filosofi: la morale è l’impulso ad essere per l’altro, a darsi all’altro qualsiasi sia il comportamento da questi tenuto. Un atto morale, per essere tale, implica però la presenza di un “io” che decide autonomamente di affidare il controllo ad un “tu”, che in ultima analisi coincide con la società intera – essendo la società un “Tu” plurale con cui ogni soggetto entra in contatto. Perciò, se manca un “io”, manca anche l’atto morale, e con esso una società in grado di agire a favore degli individui che la compongono.
Favorire l’interdipendenza (reale). Il venir meno dell’identità impedisce anche di andare incontro all’altro non come a una persona dramatis, cioè come a una maschera, ma come a un volto, a un’altra identità. E questo aspetto è riscontrabile nell’atteggiamento di alcuni soggetti e di interi Stati nei confronti dei migranti. L’intervento di Zygmunt Bauman a Modena (18 settembre, con Ezio Mauro) e a Carpi (19 settembre) può essere idealmente integrato da un’intervista cronologicamente anteriore e rilasciata a Antonello Guerrera, per la Repubblica. Bauman aveva espresso la sua opinione in merito al dramma dei migranti e aveva osservato che l’unico modo possibile per uscire dall’emergenza sarebbe stato quello di raggiungere l’«interdipendenza», a livello europeo, ma non solo: «Trovare vere soluzioni ai problemi reali». Ora, l’“interdipendenza” di cui si parla è, ovviamente, una interconnessione reale e tangibile, non quella della rete online. Anzi, per raggiungere una vera interdipendenza tra popoli, o una «fusione degli orizzonti», come direbbe Bauman, occorre che l’individuo si riappropri del posto che gli spetta all’interno del suo quartiere cittadino, uscendo pertanto da quello virtuale. Bauman sembra volere sfruttare le dinamiche di interdipendenza del web, per applicarle tuttavia come “medicina” alle fratture del mondo moderno. Bisogna perciò uscire dalla «prigione del benessere» e rinunciare alla finta sicurezza della dimensione virtuale, per ritrovare il vero dialogo.
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