menti in fuga - le voci parallele

menti in fuga - le voci parallele / menti critiche / @Giovanni_Dursi / Atomi reticolari delle "menti critiche", impegnati nella trasformazione sociale e "messa in questione del rapporto tra la forma capitalista (intesa come Gestalt, come forma della percezione) e la potenza produttiva concreta delle forze sociali, particolarmente la potenza dell’intelletto generale"

giovedì 16 agosto 2018

Bikini

Secondo una certa linea di pensiero, quella occamistico-empirista, solo gli individui esistono, le idee generali essendo “flatus vocis”, o costruzioni mentali.
Eppure, mirando intorno, l'omologazione fisico-estetica, la standardizzazione dei comportamenti, la banalizzazione dei linguaggi usati per “comunicare”, l'uniformazione dei pensieri e delle emozioni rendono massificato, quasi indistinguibile il “proprio modo d'essere”. Originalità vo' cercando.
D'altro canto l’esser-un-individuo è davvero qualcosa di più immediato, di riscontrabile, di più facile da capire di un universale, di un collettivo, o, più banalmente, “e parte sermonis”, di un nome comune?
Quando fermarsi nell’analisi per trovare l’in-dividuo, ciò che non si può più dividere?
Per gli organismi viventi in fondo la cosa è dominabile, perché fa da discriminante quella misteriosa cosa che è chiamata “vita”.
Così sembra plausibile che un cane, o un cavallo, siano un individuo, e non un insieme di molecole: tagliandolo a pezzi, il cavallo “muore”.
Viceversa per le cose inanimate il problema pare di tutt’altra natura.
Un tavolo è un individuo o un ammasso di legno, o di molecole, o di atomi, o di particelle sub-atomiche, o, persino, nemmeno di materia, ma di materia/energia?
Secondo una certa altra chiave di lettura, un individuo è una astrazione metaempirica al pari di una categoria: in realtà noi esperiamo sempre e solo dati sensibili, e solo attraverso la percezione e la concettualizzazione li organizziamo poi in individui e collettivi.
Così l’individuo sarebbe una astrazione, un punto limite mai esperito, mentre il nostro vissuto si svolgerebbe entro una dimensione intermedia, un fascio di sensazioni simile alla primordiale broda cartesiana.
Quindi, ci si illude di vedere bikini, quel bikini in particolare, quella peculiare “forma” d'esistenza. Pensare di “vedere” l'oggettività, di “leggere” la sua struttura, contiene già in nuce quella vocazione di liberalismo esistenziale, che produce distanze, dalla verità. Ciò è esclusiva e inconsapevole condizione della solitudine di un “individuo” che s'affanna a capire il mondo. Del resto, la mentalità diffusa preannuncia direttive spirituali per l'intera umanità alle quali conformarla coercitivamente.
L'omologazione fisico-estetica, la standardizzazione dei comportamenti, la banalizzazione dei linguaggi usati per “comunicare”, l'uniformazione dei pensieri e delle emozioni sono anche la materialistica testimonianza della formazione di una gruppalità sociale, che venne storicamente costituendosi, a testimonianza del notevole livello di immaturità e di deprivazione culturale, facendo, dei consistenti gruppi sociali subalterni, davvero entità umane periferiche nel generale processo di incubazione della sempre mutevole barbarie.

lunedì 13 agosto 2018

Claudia Provenzano, scrittrice di nitido talento

Claudia Provenzano è autrice del romanzo Le ragioni degli altri, ma non solo: ecco infatti la sua bibliografia.


Storia di Miryam (2007- pubblicato da Armando Curcio nel 2016)- vincitore del premio Franz Kafka Italia 2017, è la storia laica e profana della maternità di Maria di Nazareth, nota come la madre di Gesù, senza arrivare però a toccare il momento della natività. In questo libro la sua figura di donna è resa utonoma, completamente svincolata dalla quella del figlio cui è tradizionalmente sempre associata. Storia di Miryam è una ricostruzione letteraria della biografia di Maria e della sua gravidanza spiegata attingendo alle fonti storiche del Vangelo e dell’Antico Testamento, senza fare alcun riferimento a spiegazioni divine e spiritualistiche. Maria è la controfigura reale dell’icona eterea della Madonna della tradizione religiosa cattolica. E’ una giovane donna di spiccata sensibilità esistenziale, che si interroga sulle credenze e i costumi del suo tempo, sui principi teologici del bene e del male e sull’esistenza di Dio con la freschezza di un’intelligenza incontaminata, fino a sfidare con determinazione, non senza paura, le convenzioni e le regole imposte dalla cultura patriarcale dell’epoca. In questa storia si disegna il profilo di una ragazza di quattordici anni dai tratti umani e del suo amore per Gabriele, un ragazzo reale, in carne ed ossa. Si narra del concepimento naturale e illegittimo di un bambino e della difficile scelta che Maria, nel contesto della società ebraica antica, con la complicità di Giuseppe, l’uomo onesto, generoso e lucidamente razionale che le fu destinato in marito, compie per salvare se stessa e il suo bambino. 
Miryam è la ragazzina ebrea narrata nei Vangeli in pochi scarni passaggi il cui profilo e le cui vicende vengono ricostruite dall’immaginazione femminile di una donna contemporanea che vede nell’amore terreno il vero senso dell’esistere umano e che trova nel libero arbitrio l’esercizio della propria ragione in relazione a domande metafisiche e alla fede. Una storia universale che va oltre il tempo per raggiungere ed entrare in risonanza con gli animi delle donne di oggi. Storia di Miryam è la storia del concepimento del figlio di Maria come non si è mai sentita prima.  Una giovane donna, due uomini, una madre, un’amica in un intreccio emozionante di amore, passione e ribellione.

Le ragioni degli altri (2015- pubblicato da Armando Curcio nel 2018) – Si tratta di un moderno racconto corale, in cui le vite dei vari personaggi si intersecano fra loro scambiandosi i punti di vista, parlando uno dell’altro in un reciproco gioco di specchi teso a dar voce alle ragioni degli altri. Tuttavia i vari personaggi non hanno lo stesso peso, ma si irraggiano da un unico centro, quella della protagonista, Clodel e di suo figlio. Un libro articolato sia per l’intreccio dei personaggi sia per l’incastro delle voci narranti. Strutturato su continui sbalzi narrativi dalla prima alla terza persona, conduce il lettore nel labirinto di un gioco prospettico fatto di salti dentro e fuori la psicologia dei diversi caratteri. Rovesciamenti del punto di vista che hanno lo scopo di fornire una rappresentazione a tutto tondo del personaggio, descritto sia dall’interno della sua soggettiva consapevolezza, sia dallo sguardo esterno più completo ed oggettivo di un ipotetico osservatore. Sono qui rappresentate, in uno spaccato di grande attualità, varie esistenze: storie di donne che concepiscono da sole i loro figli con l’inseminazione artificiale e di donne ebbre di autonomia che consumano gelide esperienze di sesso in una notte, storie di relazioni omosessuali, di trans-gender, di bulli e vittime di bullismo, di autolesionisti, di uomini-oggetto sessualmente usati come dispensatori di seme e di uomini figli del cambiamento dei tempi non più capaci di gestire la loro virilità, fino a tematiche più tradizionali come il delitto passionale, la sottrazione della patria potestà, l’adozione, l’occultamento della paternità biologica, l’adescamento e l’abuso di minori. Temi talvolta drammatici non privi di accenti ironici ed umoristici e mai caratterizzati da risvolti nichilistici. Il ritmo del racconto è spesso incalzante e la narrazione viene qua e là insaporita da momenti spiccatamente erotici e talvolta truculenti.

Libri in corso di stesura finale

Figli mancati (2017) : affronta le storie difficili di una serie di ragazzi con famiglie problematiche il cui trait d’union è la comune professoressa di psicologia di un istituto professionale: i ragazzi frequentano tutti, taluni negli stessi anni, taluni in anni diversi la stessa scuola. Daniel, il bambino ‘esposto’, figlio abbandonato davanti al negozio di McDonald che viene adottato dal poliziotto chiamato al momento del ritrovamento. I tre fratelli Arianna, Iacopo ed Elia, i figli di Giunone, tre fratelli sottratti dall’assistenza sociale alla madre obesa dichiarata incurante per le sue difficoltà a muoversi. Amal e Ikram, le ragazze senza velo, due sorelle algerine nate in Europa punite dal padre con la rasatura dei capelli per il rifiuto del velo. Agnieszka, la bambina ‘selvaggia’, bambina ucraina ritrovata dall’assistenza sociale allo stato selvaggio nel fienile della casa del padre, suo unico famigliare. Liang, il ragazzo nella cruna dell’ago, una studentessa liceale cinese nata in Europa sottratta alla famiglia dal padre per lavorare nella fabbrica nonostante i suoi risultati eccelsi a scuola. Danush, il ragazzo dei materassi, la storia di un bambino immigrato ad un anno con la madre dall’Albania, che dopo 12 anni di stenti morirà lasciandolo sulla strada. Bianca, la bambina di cera, la ragazza di famiglia borghese che scappa di casa e diventa una punk’a’bestia,


Libri in corso di seconda stesura

Le gravi madri (2017): Tre madri e i loro figli. Madri figlie di altre madri. Madri presenti, assenti, troppo presenti, ossessive, noncuranti, ipercuranti. Storie di vita che si intrecciano in un arco di tempo che va dagli anni ’70 del Novecento ad oggi. Storie di carriere in ascesa o in rovinosa caduta, storie di eterni adolescenti alla ricerca del proprio posto nel mondo, storie di amori e delusioni, di fedeltà e tradimenti, di gravidanze non volute, di adozioni mai rivelate, di distruttive battaglie legali per l’affido dei figli, di perfidi scambi di neonati nella culla, storie di stalking e di molestie pedofile, di ragazzi abusati, storie di senzatetto e di persone ai margini della società, storie di donne sole e di donne sempre alla ricerca. Storie tutte a loro modo segnate dalle tracce che, pur senza volerlo, “gravi madri” hanno lasciato sui loro figli. (“I nostri genitori hanno determinato  le nostre ferite, le nostre ferite ci sono genitrici”. James Hilman.)

Libro in corso di prima stesura

Il corpo parla: la vita di persone il cui malessere esistenziale si esprime attraverso il corpo.

Convenzionali ha il piacere di intervistarla per voi.

Da dove nasce Le ragioni degli altri? Che cosa rappresentano gli altri per lei?

Questo romanzo nasce dallo stupore per Le vite degli altri, che poi, in effetti, era il suo titolo originale. Ad un certo punto mi sono resa conto di aver collezionato un ventaglio variegato di storie di vita, osservazioni e testimonianze che avevo avuto modo di raccogliere nelle mie diverse esperienze di viaggio, nei miei studi all’estero, nel mondo dell’arte prima e dell’insegnamento dopo. Ogni incontro era per me una sorpresa, una gemma che ad attenderne l’apertura sbocciava sotto i miei occhi e a scrutarla mi rivelava il suo meraviglioso interno. Reale e immaginario. Ogni esistenza è un mondo denso e intenso che l’esperienza tesse col filo di seta, prezioso e resistenze, dei vissuti. Di questi mondi della nostra contemporaneità io volevo raccontare, fantasticare sulle loro ragioni. Perché non c’è verità nella nostra conoscenza. Ciò che cogliamo nelle storie delle vite degli altri non è che un’interpretazione soggettiva fatta della materia delle nostre credenze, delle nostre aspettative, dei nostri desideri e delle nostre paure, che vi proiettiamo dentro. E il romanzo è lo strumento che meglio coglie questa verità: verità interpretata. Dunque volevo ricostruire, inventandone le ragioni, le cause, l’origine, quelle vite che incrociando sulla mia strada mi avevano attratta, ammaliata, accalappiata.  E volevo renderle prototipo. Caso particolare che testimonia di tanti casi analoghi e simili, che ritornano sotto altri nomi ed altre fisionomie, ma che alla fine nel loro nocciolo essenziale si ritrovano nel minimo comun denominatore di un modello universale. Storicamente universale. Poiché ogni esemplare di vita è il precipitato storico della sua epoca. La lesbica, il transgender, il bullo, lo stalker, l’autolesionista, il pedofilo, il tossicodipendente, l’immigrato, il senzatetto, le donne single, le madri che concepiscono con l’inseminazione artificiale, le famiglie omosessuali, ricomposte, monoparentali… sono figure legate al loro tempo. Alcune sono sempre esistite ma assumono caratteri diversi a seconda dell’epoca in cui vivono, altre sono novità assolute sorte dalle innovazioni tecnologiche e culturali della modernità.


Parlando con le persone, scavando nei loro racconti, interrogando e frugando nei loro vissuti ci si rende presto conto che ogni esistenza non solo è un microcosmo complesso, un coagulo affascinante di emozioni, pensieri, bisogni e aspirazioni tutto da scoprire, ma anche che a seconda del punto di vista da cui la si guardi assume colori e forme diverse. E questo è il personaggio di un romanzo: il prototipo di una vita nella quale i lettori possono ritrovarsi. Più ci si addentra nella vita di un individuo, poi, più ci si accorge che, attraverso una fitta rete di relazioni, si intreccia a quella degli altri individui. Quelle vite degli altri che tanto mi intrigavano diventavano così un poliedrico gioco di specchi in cui l’essere di ognuno si definisce non solo in base a sé stesso, ma anche in base a ciò che gli altri vedono di lui. Ecco allora Le ragioni degli altri.

Dov’è la ragione quando si dialoga, si litiga, ci si lascia?


La ragione ha il suo luogo nel soggetto. Dunque non c’è una ragione, ci sono una, nessuna, centomila ragioni. È proprio questo che ho cercato di esprimere nel mio Le ragioni degli altri. Ed ho cercato di farlo tanto a livello dei contenuti quanto a livello narratologico utilizzando una voce narrante poliedrica, che continuamente balza da un narratore esterno ad uno interno, da un narratore che si rende complice del lettore ad uno che lo tradisce e balza fuori dal noi che prima li univa svelandogli dettagli e retroscena di cui lui solo sa.

La nostra è una società capace di empatia?


No. Sebbene le teorie sperimentali della psicologia abbiano verificato l’esistenza di neuroni specchio, il che dimostrerebbe il fatto che l’empatia è innata, tuttavia ogni comportamento innato nell’uomo, a differenza di quello animale che è rigido ed immodificabile, è plastico, modificabile in base all’esperienza che compie. L’apprendimento, la capacità di cambiare adattandosi all’ambiente, è infatti la caratteristica peculiare dell’essere umano, che non a caso ha predominato e vinto, indiscusso dominatore del mondo, su tutti gli altri esseri viventi. Pertanto anche l’empatia lo è. Modificabile, intendo. Se è vero che ha una base innata è pur vero che è modificabile dall’ambiente, dunque dal contesto storico-sociale in cui si esplicita. Nel nostro, nella società occidentale liberista, forgiato sul principio morale – e biologico– dell’egoismo, dove cioè la sopravvivenza sociale giustifica il primato dell’io sugli altri, l’empatia trova il suo spazio d’esistenza nella sfera del privato, nell’intimo delle proprie emozioni e dei propri affetti, ma nei confronti dell’altro in senso puro – l’estraneo –  no.

Il suo romanzo tocca molti temi: che importanza riveste al giorno d’oggi l’amore?

L’amore nel senso tradizionale del termine, nel senso in cui il filosofo Platone ha disegnato per noi all’origine della cultura occidentale, l’amore ideale, solido, eterno, l’unione con la metà mancante che ci completa, al giorno d’oggi, è utopia. Letteralmente, sentimento senza luogo.  È miraggio, desiderio etereo cui si tende. Cui ci si avvicina, lo si sfiora, forse si riesce a toccarlo perfino, ma che non si riesce ad afferrare e tantomeno a trattenere. Nella contemporaneità, per dirla con il sociologo Bauman nella società liquida, l’amore è esso pure diventato liquido. Non dura, galleggia sulla zattera di un sentimento che ci transita da una fase ad un’altra della vita, si consuma, ci consuma, e muore. E poi viene sostituito con uno nuovo, insieme a noi, che rinasciamo a nuova vita.  La legge e i costumi, che si adeguano al movimento del reale, sono cambiati e ce lo consentono. Ci legittimano a viverlo in questo modo senza più paure e sensi di colpa.

Il sesso? Il desiderio?

Il sesso da sempre è la vitalità che innerva la carne del nostro essere animale. È desiderio, brama. È piacere che conduce al benessere se appagato, frustrazione che conduce a malessere e all’aggressività se inappagato. Il sesso in senso più genuinamente freudiano è il desiderio per eccellenza, è l’energia che sta alla base di ogni nostra azione, di ogni nostra scelta, è ciò che ci muove, ci scuote, sbattendoci poi vilmente a terra o lanciandoci, sublimati, verso il cielo. Dipende da come, verso cosa canalizziamo quell’energia. Senza questa energia psico-sessuale non ci sarebbe l’arte (energia canalizzata nella creatività), la scienza (energia canalizzata nell’attività intellettuale), il volontariato sociale, la religione perfino. Il desiderio, con Freud, e con tutta la psicanalisi che ne segue, è sessualità. O meglio la sessualità non è altro che desiderio. Libido. Eros. Energia psichica che scorre nelle vene del nostro corpo. Perché corpo e psiche sono un tutt’uno. Non c’è l’uno senza l’altro. Non c’è vita senza desiderio. Ma nella nostra società della mercificazione, dove tutto è ridotto a merce, è anche la più preziosa merce di scambio e il più potente strumento di ricatto.

La colpa?

Colpa o senso di colpa? La colpa è il venir meno di una responsabilità che si è coscientemente e liberamente assunta. La si può riconoscere. La si può non riconoscere. Gli altri possono imporcela, scaraventandocela addosso come proiezione della loro propria assunzione di responsabilità, che però non ci riguarda. In questo senso, allora, ci sono due tipi di colpa. Una in senso morale, interna alla coscienza, quella che si è formata in noi con l’educazione dei genitori, che è puramente personale e non perseguibile. E c’è una colpa in senso legale, convenzionale, stabilita, oggettiva, quella che serve alla conservazione della società, e che perciò viene perseguita con la legge. Le due colpe spesso entrano in conflitto, si pensi al mito di Antigone.  È  ciò che sta alla base della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. Il senso di colpa invece è quel peso opprimente con cui la nostra coscienza morale ci schiaccia per frenare le nostre pulsioni (quell’energia sessuale di cui si parlava sopra) quando queste non riescono ad essere canalizzate e dirompono allo stato puro, nella loro più cruda animalità. Di questa animalità ho parlato in Le ragioni degli altri attraverso un paio di personaggi secondari, che compaiono fulmini e… fulminanti, proprio per la truculenza della loro pulsione non governata.

L’ossessione?

L’ossessione è la fissazione assoluta e coatta su un’idea. Alla sua origine sta ancora quella pulsione erotica, di cui abbiamo parlato prima, desiderio, mancanza che chiede di essere colmata. Quell’ energia psichica che muove, smuove, ci agita e percuote, che non può essere ignorata, ma che nondimeno può essere indirizzata. Può essere diretta verso oggetti vili e allora diventa malattia, pericolosa nevrosi, oppure verso oggetti nobili e allora diventa fonte di creatività e devozione. L’ossessione è quella che spinge ai suoi delitti il serial killer, ma è anche quella che muove in modo sorgivo la mano dell’artista, dello scienziato, del missionario. L’ossessione è il rapimento della psiche da parte di un’idea che dapprima si insinua e poi si insedia nella coscienza. È un assedio invadente e tenace, prepotente ed esondante. L’idea ti chiama a sé con seduttiva dolcezza, ti solletica l’orecchio, sussurra, suggerisce, ti invita a seguirla, e poi ti cattura. Pretende tutto per sé. Attenzione, tempo, cura. È tirannica come un neonato. (Ma ti è cara,  la ami). Non ti lascia mai, di giorno, di notte, entra nelle tue azioni, nei tuoi pensieri coscienti, in quelli inconsci, anima i tuoi sogni, ti penetra fra le fibre del corpo, si fa largo sgomitando in mezzo alle tue relazioni. Non hai un momento per i tuoi figli, per il tuo compagno, per i tuoi amici, non per Gabriele Ottaviani che ti chiede un’intervista. Non ti dà tregua. Finché non l’hai divorata, spolpata, ridotta al midollo, finché non l’hai consumata, finché non ne è rimasta neanche una briciola, non puoi fare altro.

Poi, ti senti bene. Come dopo un parto.

La violenza?

È ancora una pulsione. È una delle modalità in cui la nostra energia psichica si manifesta.  Violenza è la pulsione sessuale (desiderante, libidica, erotica) che non riuscendo a trovare una via ‘umana’ per sfogarsi in modo alternativo, si sfoga in modo arcaico, bestiale. La violenza non è solo fisica ma anche psicologica, e questa, fra le due, di certo è la più subdola perché non porta la stigmate di un livido, di un’escoriazione, di un braccio rotto, e nondimeno comporta sofferenze anche più gravi.

La paura?

La paura è il senso di impotenza di fronte ad un pericolo che mette a rischio la nostra vita, pericolo individuato che sappiamo riconoscere come tale e dal quale possiamo pertanto tenerci a distanza. La paura non è dei vili è degli oculati, è lo strumento di cui ci equipaggia la biologia per difenderci dal rischio e tener salva la nostra vita. Chi non ha paura non è coraggioso come si crede, bensì un avventuriero che non ha cara la vita.

La speranza?

La speranza è il peggiore dei mali. Fra tutte le emozioni e i sentimenti umani è quella che resta sul fondo del vaso di Pandora, proprio perché la più temibile. La speranza induce ad attendersi qualcosa di meglio eppure è vano aspettarsi un futuro migliore perché nel momento in cui si realizza ci delude sempre, perché nella speranza noi proiettiamo tutti i nostri desideri impossibili.  E la delusione ci abbate, ci schianta al suolo, ci ammazza. Tuttavia l’uomo non può vivere senza questo effimero sentimento perché è ciò che ci proietta verso il futuro e, come ci ha insegnato l’esistenzialismo, non c’è presente senza tensione verso il futuro.

Il dolore?

Il dolore è mancanza. Vuoto, lacuna, fame. È il bisogno non appagato, è frustrazione, gioia mancata, privazione. È illusione delusa.

Il pregiudizio?

Il pregiudizio è uno stereotipo sovraccaricato di un giudizio di valore assoluto. Buono-cattivo, bello-brutto, sano-malsano, giusto-ingiusto. Lo stereotipo non è altro che uno schema irrigidito che non ammette eccezioni.  Se lo stereotipo è il cemento armato nel quale rimaniamo imbrigliati poiché inibisce la nostra curiosità, la spinta ad esplorare e a conoscere tutto ciò che è nuovo, ovvero ciò che fuoriesce dagli schemi, il pregiudizio ci autorizza a disprezzare, ovvero allontanare ed annientare, ciò che è diverso da noi. Nuovo e diverso si identificano nella nostra mente nel minimo comun denominatore di ciò che è ignoto e che in quanto tale temiamo. Tant’è vero che quando ci avviciniamo e curiosi ci lasciamo andare all’esplorazione di ciò che non conosciamo ecco che, visto da vicino, ci diventa familiare e non ci spaventa più. Stereotipi e pregiudizi nascono dalla paura dell’ignoto e del diverso, e dal bisogno di autoaffermazione di chi, sapendo di valere poco o nulla, non trova alto modo di prevalere se non affondando gli altri. Facile.

Perché scrive?

Scrivo per eccesso di libido. Sempre in senso psicanalitico, intendo. Desiderio, voluttà, bisogno vitale. Scrivere è una forma d’arte. Tutta l’energia che a fiotti mi scuote, sopraffacendomi con un eccesso di vitalità, io la scarico nello scrivere. Questa è la fonte del perché su cui mi interroga. La meta è il lettore. La possibilità di entrare in risonanza con gli altri attraverso le mie parole, veicoli di umani sentimenti e pensieri e desideri che agogno condividere con gli altri. Cosa possibile se il personaggio funziona, se è credibile, se è riuscito. Per dirla con Hemingway, un personaggio è riuscito se riesce ad essere umano. Solo così si innesca quel fenomeno psicologico definito identificazione.

Qual è il ruolo dello scrittore nella contemporaneità?

Bella domanda. Qual è il ruolo dello scrittore nell’epoca contemporanea non saprei dirlo. Ci sono tanti ruoli, così è sempre stato, in base alla poetica letteraria che lo ispira. Non c’è un ruolo che la società gli possa delegare, non in un paese libero almeno. Non c’è un unico ruolo che i lettori gli richiedano di svolgere perché ogni lettore è diverso dall’altro e cerca nella lettura cose diverse. Potrei dire quale vorrei che fosse il mio. Cioè: il narratore delle vicende umane.  Vorrei riuscire, e vorrei riuscirci davvero bene, a dare voce alle emozioni, ai pensieri, ai sentimenti, alle ambizioni e ai cedimenti che impregnano quelle vicende e farne di ognuna un prototipo nel quale i lettori possano riconoscerci. E perciò sentirsi meno soli e meno insignificanti nel marasma e nell’infinita sconfinatezza dell’esistenza. Io cerco questo.

Qual è la situazione culturale italiana?

Domanda da porre ad un sociologo. Per poter rispondere dovrei fare una ricerca storica e sociale, attingere alle statistiche di enti accreditati, rielaborare tutti questi dati raccolti, rifletterci sopra e infine riuscire ad elaborare una tesi mia. Cosa che richiederebbe troppo tempo ed io il mio lo impiego per scrivere e per compiere ricerche sui soggetti di cui scrivo. Se mai scriverò un libro che abbia a che fare con la situazione culturale italiana le risponderò.  (ride)

Il libro e il film del cuore, e perché?

Ho un libro ed un film del cuore per ogni fase della mia vita. Nel momento in cui ho scritto Le ragioni degli altri il libro era Il bacio della medusa di Melania Mazzucco, perché ho sentito risuonare nella sua la mia scrittura: quella tensione della creatività per cui le parole si riversano in modo alluvionale dall’anima. L’abbondanza delle emozioni che tracimano dai pensieri, la ricchezza della frase non secca, non anoressica, ma grassa di aggettivazioni, di figure retoriche, di ridondanze, di attenzione alla melodia, alla sonorità delle parole. Affinché affiorino sfumature, slittamenti di senso, evocazioni. Un romanzo in cui la potenza della parola sia affidata alle briglie capaci dello scrittore, pur senza togliere spazio alla libertà di immaginazione del lettore. Perché non è solo con l’asciuttezza dell’eloquio, con l’alveo vuoto della parola, che si può scatenare l’immaginazione. Concepisco il romanzo come il luogo in cui chi legge può scivolare nelle parole come sulle onde di un mare che non si assopisce, indugiando su quelle che più sente affini, affezionate o affascinanti per usarle come trampolino per la propria creatività immaginifica e lanciarsi “verso l’infinito ed oltre” (per citare un famoso cartone animato). Il film, per sua natura più sintetico ma anche più visivo, non è stato uno solo. Ma in quel periodo pensavo molto a America oggi e The Hours, per l’intreccio dei personaggi, per la molteplicità poliedrica dei punti di vista, per l’architettura narrativa e a Pulp Fiction, per gli aspetti di violenza parossistica cui mi sono ispirata.

By Gabriele Ottaviani

Convenzionali

martedì 10 luglio 2018

Lenin e la situazione rivoluzionaria - By Renato Caputo

Lenin e la situazione rivoluzionaria

È il fine stesso della lotta rivoluzionaria a imporre gli strumenti necessari per la sua realizzazione.

Lenin e la situazione rivoluzionaria 
Sebbene nessuno possa, necessariamente, sapere a priori se le condizioni rivoluzionarie oggettive si tradurranno in atto, il compito fondamentale dell’avanguardia – abdicando al quale perderebbe la propria ragione d’essere – è secondo Lenin: “svelare alle masse l’esistenza della situazione rivoluzionaria, mostrarne l’ampiezza e la profondità, svegliare la coscienza rivoluzionaria del proletariato, aiutarlo a passare alle azioni rivoluzionarie e creare organizzazioni corrispondenti alla situazione rivoluzionaria” [1], dal momento che in tali momenti risulta decisiva, in primo luogo, “l’esperienza dello sviluppo dello stato d’animo rivoluzionario e del passaggio alle azioni rivoluzionarie della classe avanzata, del proletariato” [2]. In ogni caso l’avanguardia potrà adempiere al proprio compito solo tenendosi pronta all’evenienza che si produca una situazione rivoluzionaria, anche perché, spesso, come insegna la storia, essa si viene a creare per “un motivo ‘imprevisto’ e ‘modesto’, come una delle mille e mille azioni disoneste della casta militare reazionaria (l’affere Dreyfus), per condurre il popolo a un passo dalla guerra civile!”[3].
Il partito rivoluzionario, per poter affrontare dei mutamenti repentini del corso storico indipendenti dalla propria volontà e che possono sfuggire alla propria capacità di previsione, deve essere addestrato ad utilizzare ogni forma di lotta, sapendo di volta in volta selezionare la più adeguata alla fase. Così, ad esempio, la Rivoluzione di Febbraio si è imposta, in una situazione di partenza molto arretrata, ovvero il dominio dell’autocrazia zarista, proprio grazie al suo aver coinvolto, in modo interclassista, ceti sociali anche molto differenti fra loro come la media e alta borghesia liberal-democratica e il proletariato urbano egemonizzato dai socialisti. Dunque, come chiarisce a questo proposito Lenin, “se la rivoluzione ha trionfato così rapidamente e in modo – apparentemente, al primo sguardo superficiale – così radicale, è soltanto perché una situazione storica singolarmente originale ha fuso insieme, e con un notevole grado di ‘coesione’, correnti del tutto diverse, interessi di classe eterogenei, aspirazioni politiche e sociali del tutto opposte” [4].
D’altra parte, generalmente, l’avversario di classe è sempre pronto ad avvalersi di qualsiasi mezzo utile, anche il più turpe, quando vede messi in discussione i propri privilegi. Così, come ricorda Lenin, “nella lotta contro il socialismo essi sono ricorsi a tutti i mezzi di cui disponevano, hanno utilizzato la violenza, il sabotaggio e hanno trasformato anche ciò che è il grande orgoglio dell’umanità – il sapere – in un’arma per lo sfruttamento del popolo lavoratore” [5].
Del resto non può che essere il fine stesso a imporre gli strumenti di volta in volta necessari per la sua concreta realizzazione. Così, ad esempio, più si avvicina, tramite lo sviluppo della coscienza di classe del proletariato, il momento dello scontro frontale, della guerra di movimento, più diviene necessario trovare la giusta dialettica ossia, per dirla con Lenin, “l’importanza della combinazione della lotta legale con la lotta illegale. Questo problema assume un grande significato sia generale che particolare, perché in tutti i paesi civili e progrediti si avvicina con rapidità il tempo in cui questa combinazione diventerà – e in parte è già diventata – sempre più impegnativa per il partito del proletariato rivoluzionario, per effetto del maturare e dell’avvicinarsi della guerra civile del proletariato contro la borghesia, per effetto delle furiose persecuzioni contro i comunisti da parte dei governi repubblicani, e dei governi borghesi in tutti i modi (l’esempio dell’America vale per tutti)” [6].
Dunque, quanto più ci si approssima al momento dello scontro finale fra oppressi e oppressori, tanto più tende ad aumentare la repressione violenta degli apparati dello Stato e la feroce persecuzione delle avanguardie dei subalterni, che impone al partito rivoluzionario di combinare i consueti strumenti di lotta legali con i mezzi illegali. Proprio perciò la possibilità, quasi sempre remota, di poter battersi per le proprie idee sul piano della dialettica politica, può comportare la momentanea rinuncia ai metodi generalmente necessari alla realizzazione della rivoluzione.
D’altra parte il pacifismo, la nonviolenza, in una società divisa in classi rischiano di essere pie illusioni – fughe idealistiche dinanzi a una deplorevole realtà, un abdicare del proletariato al compito storico di porsi quale classe universale [7] e addirittura un abbandonare lo stesso programma di dura lotta concreta per le riforme e i diritti democratici agli opportunisti o all’intervento dall’alto del governo, che le concederà per passivizzare le masse. Dunque, a parere di Lenin, la non violenza e il pacifismo comportano, nei fatti, un’abdicazione alla lotta per le stessa riforme di struttura. “Noi sosteniamo – osserva a tal proposito Lenin – un programma di riforme che è anch’esso diretto contro gli opportunisti. Questi tali sarebbero ben felici se noi lasciassimo loro in esclusiva la lotta per le riforme e, fuggendo la triste realtà, trovassimo riparo sopra le nuvole, sulle cime d’un qualsiasi ‘disarmo’. Il ‘disarmo’ è appunto la fuga dalla deplorevole realtà e non un mezzo per combatterla” [8].
Tanto più che, generalmente, sarà possibile liberarsi dallo sfruttamento capitalista e dalle guerre imperialiste unicamente attraverso la tragica esperienza della guerra rivoluzionaria. Perciò Lenin contesta le teorie pacifiste, non violente e del disarmo in quanto solo apparentemente costituiscono l’opposizione più risoluta alla guerra e al militarismo, mentre in realtà sono la manifestazione propria dei filistei piccolo-borghesi “di restare estranei alle grandi battaglie della storia mondiale” [9]. Come ricorda Lenin “solo dopo che avremo rovesciato, definitivamente vinto ed espropriato la borghesia in tutto il mondo, e non soltanto in un paese, le guerre diventeranno impossibili” [10], solo allora infatti non vi saranno più guerre imperialiste, di classe o di liberazione nazionale.
Detto questo, rimane essenziale, per un rivoluzionario, sapere distinguere le diverse tipologie di guerra, anche per smascherare i tentativi dei revisionisti che, come Kautsky e Plechanov, magari utilizzando in modo improprio - estrapolandole dal contesto - citazioni dello stesso Marx, tendono a giustificare il sostegno dato dagli opportunisti alle proprie borghesie nazionali in occasione di guerre di natura imperialistica. Osserva a questo proposito Lenin, richiamandosi alla risoluzione finale dell’ultimo congresso della II Internazionale, prima dello scoppio della prima guerra mondiale: “la risoluzione di Basilea non parla della guerra nazionale, né della guerra popolare – di cui si ebbero esempi in Europa, e che furono anzi tipiche nel periodo 1789-1871 – e nemmeno della guerra rivoluzionaria, guerre alle quali i socialdemocratici non hanno mai rinunciato. Ma essa parla della guerra attuale che si svolge sul terreno dell’‘imperialismo capitalista’ e degli ‘interessi dinastici’, sul terreno della ‘politica di conquista’ degli ambedue gruppi di potenze belligeranti […]. Plekhanov, Kautsky e soci ingannano senz’altro gli operai, ripetendo la menzogna interessata della borghesia di tutti i paesi, che tende, con tutte le forze, a presentare questa guerra imperialista, coloniale e brigantesca come una guerra popolare difensiva (non importa per chi) e che tenta di giustificarla con gli esempi storici delle guerre non imperialistiche” [11].
Perciò Lenin non può che giudicare filistei quei socialisti che tentavano di giustificare il loro sostegno a una guerra imperialista sulla base del fatto che sarebbe una legittima guerra difensiva, quale difesa della propria patria occupata dall’esercito nemico: “per il filisteo l’importante è di sapere dove stiano gli eserciti, chi adesso abbia la meglio. Per il marxista è invece essenziale il motivo per cui si combatte una guerra concreta, durante la quale possono risultare vittoriosi questi o quegli eserciti” [12]. Anche perché, pure le masse prive di coscienza di classe danno credito alle giustificazioni che i revisionisti tendono a dare del loro schierarsi con le borghesie nazionali nella guerra imperialista, richiamandosi a un sedicente “difensismo rivoluzionario”. In tal modo, in effetti, le masse non comprendono il legame che c’è fra il capitalismo, in particolare nella sua fase di sviluppo imperialista, e la guerra e rischiano di cadere nell’illusione dei pacifisti per cui sarebbe possibile giungere a una pace giusta e duratura, senza aver prima rovesciato l’imperialismo.
“Data l’innegabile buona fede di larghi strati di rappresentanti delle masse favorevoli al difensismo rivoluzionario, che accettano la guerra solo come la necessità e non per spirito di conquista, e poiché essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, ostinazione e pazienza l’errore in cui cadono, svelando il legame indissolubile tra il capitale e la guerra imperialistica, dimostrando che è impossibile metter fine alla guerra con una pace veramente democratica, e non imposta con la forza, senza abbattere il capitale” [13]. Perciò Lenin critica quelli che definisce i social-pacifisti, ovvero coloro che pur dichiarandosi socialisti portavano avanti una linea pacifista che, come mostra Lenin, è inconciliabile con il socialismo rettamente inteso. “Ecco l’argomento essenziale: la rivendicazione del disarmo è l’espressione più chiara, risoluta e conseguente della lotta contro ogni militarismo e ogni guerra. Ma proprio in quest’argomento essenziale risiede l’errore fondamentale dei fautori del disarmo. I socialisti a meno che cessino di essere socialisti, non possono essere contro qualsiasi guerra. In primo luogo, i socialisti non sono mai stati e non potranno mai essere avversari delle guerre rivoluzionarie” [14].
Proprio per questo Lenin critica, severamente, le parole d’ordine che proclamano il disarmo in una condizione in cui il mondo è ancora essenzialmente sotto il dominio di paesi imperialisti. La tendenza, che Lenin giudica meschina, degli Stati di piccole dimensioni di rimanere neutrali, anche grazie alla politica del disarmo, è paragonata alla pia illusione del “piccolo-borghese di restare estraneo alle grandi battaglie della storia mondiale e di approfittare di una posizione di relativo monopolio per continuare a vivere in uno stato di passività abitudinaria: ecco la situazione sociale oggettiva che può garantire all’idea del disarmo un certo successo e una certa diffusione in alcuni piccoli Stati. Beninteso, questa tendenza è reazionaria e riposa esclusivamente su illusioni, perché in un modo o nell’altro l’imperialismo trascina anche i piccoli Stati nel vortice dell’economia e della politica mondiale” [15]. Se anche nel caso dei piccoli Stati la politica del disarmo è insensata, proprio per la sua natura particolaristica, che non tiene nella dovuta considerazione le linee fondamentali di sviluppo della storia mondiale, tale prospettiva non può in alcun modo essere rivendicato da un socialista. “Il ‘disarmo’ è oggettivamente il programma più nazionale, più specificamente nazionale, dei piccoli Stati, ma non è in nessun caso il programma internazionale della socialdemocrazia rivoluzionaria internazionale” [16].
Note
[1] I. V. Lenin, Il fallimento della II Internazionale (maggio-giugno 1915), in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 21, p. 194.
[2] Ibidem.
[3] Id., L’estremismo, malattia infantile del comunismo (aprile-maggio 1920), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 493.
[4] Id., Lettere da lontano (marzo 1917), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 101.
[5] Id., Discorso sullo scioglimento dell’Assemblea costituente alla seduta del Comitato esecutivo centrale di tutta la Russia (gennaio 1918), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 301.
[6] Id., L’estremismo, op. cit. pp. 467-68.
[7] A parere di Lenin il proletariato moderno è la classe universale poiché: “è la classe più forte e più avanzata della società civile; in secondo luogo perché nei paesi più progrediti esso costituisce la maggioranza della popolazione.” Id., La grande iniziativa (28 giugno 1919), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 418. Dunque, a parere di Lenin, “solo una classe determinata, e precisamente gli operai delle città, e in generale gli operai di fabbrica, gli operai industriali, è in grado di dirigere tutta la massa dei lavoratori e degli sfruttati nella lotta per abbattere il giogo del capitale, di dirigerli nel corso stesso dell’abbattimento, nella lotta per mantenere e consolidare la vittoria, nella creazione del nuovo ordine sociale, dell’ordine socialista, in tutta la lotta per l’abolizione completa delle classiivi: p. 416.
[8] Id., Il programma militare della rivoluzione proletaria (settembre 1916), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 92.
[9] Ivi, p. 94.
[10] Ivi, p. 86.
[11] Id., Il fallimento della II Internazionale (maggio-giugno 1915), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 9.
[12] Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico” (agosto-ottobre 1916), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 63.
[13] Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale (aprile 1917), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 109.
[14] Id., Il programma militare… op. cit., p. 84.
[15] Ivi: p. 94.
[16] Ivi: p. 95.

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30/06/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte: 

“Conservazione”, “progresso”. “Destra”, “Sinistra”. La verità oltre lo storytelling

Realtà: L’ISTAT certifica l’aumento della povertà assoluta in Italia. I dati, riferiti al 2017, riguardano circa 5 milioni di individui, l’8,3% della popolazione residente, in espansione rispetto al 7,9% del 2016 e al 3,9% del 2008. Le famiglie in povertà assoluta sono 1,8 milioni, con un’incidenza del 6,9%, in crescita di sei decimi rispetto al 6,3% del 2016 (era il 4% nel 2008). La ripresa dell’inflazione nel 2017 spiega circa la metà (tre decimi di punto percentuale) dell’incremento dell’incidenza della povertà assoluta, la restante parte deriva dal peggioramento della capacità di spesa di molte famiglie che sono scese sotto la soglia di povertà (Fonte: Presidente dell’ISTAT, Giorgio Alleva, in scadenza di mandato – 14 Luglio 2018 – con indennità di carica di 240.000,00 € lordi annui).
Complessivamente, si stima che nel 2017 siano in povertà assoluta 154 mila famiglie e 261 mila individui in più rispetto al 2016. Dal punto di vista territoriale, i dati provvisori mostrano aumenti nel Mezzogiorno e nel Nord, e una diminuzione al Centro. L’aumento delle famiglie in povertà assoluta è, inoltre, sintesi di una diminuzione in quelle in cui la persona di riferimento è occupata, e di un aumento in quelle in altra condizione.
Inoltre, un milione di famiglie è senza lavoro, sono raddoppiate in 10 anni. Nel 2017 in 1,1 milioni di famiglie italiane “tutti i componenti appartenenti alle forze di lavoro erano in cerca di occupazione”, pari a 4 famiglie su 100, in cui non si percepiva dunque alcun reddito da lavoro, contro circa la metà (535mila) nel 2008. “Di queste, – dice Alleva – più della metà (il 56,1%) è residente nel Mezzogiorno. Nel complesso si stima un leggero miglioramento rispetto al 2016 (15mila in meno), ma la situazione al Sud è in peggioramento (13mila in più)” (Fonte: ANSA).
Politica: … Ehm. Secondo il timbro col quale viene pronunciata può sottolineare un moto di incertezza, di imbarazzo, di incredulità, o di indifferenza, riassumere una larvata minaccia (Non si lasci scappar parola… altrimenti… ehm! aveva detto uno di que’ bravi – “I promessi sposi” di A. Manzoni, 1827) o semplicemente servire di avvertimento per qualcuno che parla a interrompere o cambiar discorso.
Conservazione”, “progresso”. “Destra”, “Sinistra”. La verità oltre lo storytelling
«Ogni nuova verità nasce nonostante l’evidenza», Gaston Bachelard
Per avviare il discorso sulla “conservazione” nella società contemporanea, si propone qui una riflessione sui cambiamenti economico-sociali e politico-culturali in atto che riguardano, prevalentemente, la forma e non la sostanza dei rapporti sociali. Più precisamente, si ritiene che all’orizzonte non sia affatto possibile scorgere nuove strutturazioni e/o ribaltamenti gerarchici nella “composizione” [1] e “situazione” [2] di classe su scala planetaria; semmai, alcuni aspetti di costume “politically correct” hanno distolto l’attenzione dai processi di emancipazione storico-sociale, ritenuti ormai quasi inessenziali, considerata, con pervicacia antistorica ed antiteorica, l’inalterabilità della dimensione mercantile ed interdipendente delle formazioni economico-sociali nell’odierno capitalismo globale [3].
Tra l’altro, le alternative di costume [4] – apparenze fenomeniche di mutamenti affatto fondativi di un inedito vivere sociale – non procurano gli effetti auspicati, bensì sono esse stesse congegnate come perfettamente funzionali all’attuale consolidamento del cosiddetto capitalismo post-borghese e post-proletario. Ecco perché la categoria filosofico-politica della “conservazione” è quella che meglio s’adatta all’odierno scenario nell’interpretare le tipiche dinamiche delle attuali formazioni economico-sociali. Infatti, “conservazione” non significa “inazione”, “immobilismo”, “stasi”, “blocco nostalgico”; palesa semanticamente, viceversa, l’azione del “mantenére”, l’agire in modo che il presente, con le sue caratteristiche, duri a lungo, perduri appunto, rimanga in essere e in efficienza; questa accezione mette in rilievo l’intenzione, l’opera, i mezzi volti a tal fine; evidenzia, dunque, il ruolo indispensabile della soggettività che orienta i comportamenti nel far rimanere la situazione sociale in una determinata stabile condizione, oltre la quale non vuole andare.
Le battaglie sociali di retroguardia – quelle sui “diritti” sociali e politici, ad esempio –, rispetto a quella centrale per il “potere”, sono diventate, quindi, veri e propri ostacoli culturali per l’elaborazione di un pensiero e di una cultura efficacemente anticapitalistiche e delle correlate prassi antagoniste.
Concentrare su questo tema – la “conservazione” – il pubblico dibattito è arduo perché si rischia il fraintendimento o il linciaggio da parte delle vestali della realpolitik ignare queste ultime, in verità, del fallimentare problem solving connesso al “pragmatismo” che avrebbe dovuto secolarmente generare.
Le critiche a questa analisi sono fin troppo chiaramente presenti nella coscienza di chi scrive; tuttavia, rinunciare non favorirebbe il superamento del pregiudizio tardo-illuminista, veicolato dal positivismo e contrastato dal marxismo, secondo cui non potrebbe essere realizzato se non ciò che storicamente si realizza. Scrive a suo modo, in proposito, Il giovane favoloso (rif. al film del 2014 diretto da Mario Martone), Giacomo Leopardi (rif. al Canto XXXIV – La ginestra, o fiore del deserto, 1836): Dipinte in queste rive Son dell’umana gente Le magnifiche sorti e progressive. Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. Distaccandosi dal lirismo, più in generale, le definibili magnifiche sorti e progressive ci portano ad affermare che, secondo il pregiudizio tardo-illuminista, l’umanità avrebbe operato indefessamente, pur nell’affiorare di contraddizioni, pur nell’inevitabilità dei conflitti e del fiorire di dilemmi teorico-pratici, per il progresso economico, tecnico, scientifico, sociale e politico dei popoli. A questa errata convinzione è necessario opporre domande obiettive riguardo alla realtà della condizione umana 5 e sulla sua configurazione attuale circa il possesso d’una specifica dimostrazione di verità sul raggiunto “progresso”. Pertanto, ci si propone di scomporre questi interrogativi in due delimitate questioni, che saranno affrontate in successione.
  • La prima può essere così formulata: esiste una comprensione “obiettiva” dell’idea di progresso consegnataci dalla rivoluzione socio-culturale, prima che politico-istituzionale, dell’intraprendente borghesia del Settecento europeo? Esiste, cioè, un’ermeneutica super partes di questa nozione, capace di metterne in luce aspetti nuovi e originali rispetto a quanto farebbero l’organizzazione economica della società, la filosofia o le scienze, di chiarire eventuali ambiguità o esplicitarne meglio le implicazioni?
  • La seconda quaestio alla quale si giunge è la seguente: può l’interpretazione di classe, il punto di vista partigiano, aiutare a comprendere i rapporti che intercorrono fra progresso economico-sociale, scientifico e progresso umano, la dinamica delle loro interazioni, ma anche le condizioni richieste per una loro convergenza?
In ambedue i casi ci si chiede, in definitiva, cosa il tempo presente possa aggiungere ad un ragionamento sul “progresso” e, specularmente, sulla “conservazione”.
Come chiosa a queste riflessioni, si riferisce la formulazione, per certi versi la più avanzata nonostante l’aspetto feuerbachianamente alienato, dell’idea di progresso decodificata come “sviluppo umano”: secondo la definizione dell’United Nations Development Programme, esso consiste in «un processo di ampliamento delle possibilità umane che consenta agli individui di godere di una vita lunga e sana, essere istruiti e avere accesso alle risorse necessarie a un livello di vita dignitoso», nonché di godere di opportunità politiche economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza.
Gli obiettivi generali dello sviluppo umano sono i seguenti:
* promuovere la crescita economica sostenibile, migliorando in particolare la situazione economica delle persone in difficoltà; * migliorare la salute della popolazione, con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi e ai gruppi più vulnerabili; * migliorare l’istruzione, con priorità all’alfabetizzazione, all’educazione di base e all’educazione allo sviluppo; * promuovere i diritti umani, con priorità alle persone in maggiore difficoltà e al diritto alla partecipazione democratica; * migliorare la vivibilità dell’ambiente, salvaguardare le risorse ambientali e ridurre l’inquinamento.
Al posto degli indicatori che si riferiscono alla sola crescita economica (come il prodotto nazionale lordo), che nulla dicono degli squilibri e delle contraddizioni che stanno dietro alla crescita, l’U.N.D.P. utilizza dal 1990 un nuovo indicatore di sviluppo umano (ISU o HDI nell’acronimo inglese).
Bisogna riconoscere che corrispondere in maniera conoscitiva alle problematiche poste va incontro ad alcune difficoltà. Nei riguardi della prima, circa l’esistenza di una specifica ermeneutica teleologica di progresso, va osservato che molte delle visioni filosofico-politiche sul tema affondano le loro radici proprio nel pensiero classista borghese e in alcuni casi ne rappresentano sviluppi, ma anche derive e radicalizzazioni.
Sarebbe difficile scrivere una storia dell’egemonia economica e culturale della borghesia, fino all’assetto globale della contemporaneità, eterodiretto dall’Occidente, senza chiamare in causa categorie originariamente elaborate dal processo rivoluzionario che ha fatto i conti con l’ancien régime (ricordiamo che con il colpo di Stato del 9 termidoro, il 27 Luglio del 1794, le vicende volgono verso altre mete determinando l’ascesa di Napoleone); se non lo si fa è perché queste vengono di solito implicitamente assunte, non più tematizzate verificandone l’applicazione storica, o in alcuni casi perfino espropriate dei loro originari significati.
In merito alla seconda domanda, quella inerente le eventuali luci che i principi di uguaglianza, libertà e fratellanza, precocemente abbandonati, avrebbero gettato sul rapporto fra progresso economico-sociale, scientifico, tecnico e progresso umano, la difficoltà nasce da alcune visioni oggi non più compresse e non più comprimibili nell’ideologia della classe dominante, come ad esempio quella di una supposta dialettica armonia fra ragione capitalistica e democrazia, fra materialità dell’esistenza e sistema giuridico-valoriale, fra scienza e umanesimo, fra poteri e popoli, che finisce col condizionare anche la comprensione del rapporto fra ciò che è umanamente rivendicabile e ciò che è ritenuto oggetto di immodificabile, totalitaria organizzazione (secondo il criterio di naturalizzazione dei fatti storici) dei rapporti di produzione e di riproduzione della vita sociale. Desiderando sintetizzare, si può dire che la tela può più volte essere dipinta, ma sempre all’interno d’una stessa cornice, mentre è il perimetro del quadro oltre che l’effige a caratterizzarne la qualità; nel caso in questione, l’estensione del capitalismo e la tutela di società e natura (rif. a K. Polanyi).
Solo lasciando alla storia e non alla storiografia la libertà di impiegare le proprie potenzialità piuttosto che affidarsi alla retorica ed all’apparato teorico categoriale, sarà possibile superare alcuni schemi predeterminati e giungere perfino a suggerire, come si mostra in questo intervento, che progresso economico-sociale ed emancipazione umana sono, per la ricerca non prezzolata, intimamente legati. Un vero progresso non può che essere progresso sociale, ed una vera emancipazione umana non può che includere in sé, come sua dimensione costitutiva, un vero ed irreversibile avanzamento nelle forme storiche dei rapporti sociali.
Pertanto, vigente tutt’ora il sistema capitalistico-borghese [6] (i cui prodromi sono di epoca remota e affondano alcune delle proprie radici nell’Europa tardo-medioevale, in particolare in quel protocapitalismo finanziario e commerciale incarnato dalla figura dei mercanti imprenditori e dalla fenomenologia dell’accumulazione originaria), nient’altro si può affermare che la sussistenza strutturale d’una compatibilità tra “conservazione” e regime politico planetario. Tale compatibilità non è mai stata scalfita in oltre quattro secoli, nonostante la legislazione sociale, il Welfare State universalistico, la fuoriuscita nominale dallo schiavismo che autorizza alcuni a ritenere avvenuto un miglioramento delle condizioni di vita senza precedenti nella storia dell’umanità mettendo sotto silenzio in quali circostanze e come avesse avuto origine e come continua tutt’ora l’accumulazione di ingenti somme di danaro che sole hanno potuto avviare e consolidare la grande produzione capitalistica e la “società di massa”.
Per valutare quale contributo la borghesia abbia recato all’idea di progresso non è la concezione imprenditoriale della tecnica o del lavoro umano che va messa a tema, perché un rapporto fra capitalismo e progresso coinvolge comunque in primis la concezione della storia e della libertà, e solo secondariamente l’emancipazione umana dallo sfruttamento e la riconciliazione tra lavoro manuale ed intellettuale nella generalità delle persone. Questo perché la “rivoluzione borghese”, nell’ambito dell’affermazione definitiva del modello capitalistico, ha sostituito funzioni ed inventato “figure” sociali, ma non ha alterato la gerarchia del comando politico a difesa dei propri interessi economici sussumendo, nella logica del profitto, le classi subalterne.
Forgiata soprattutto nella “modernità”, l’idea di “progresso” contrapposta a quella di “conservazione”, viene ampiamente perfezionata nel Seicento da Francesco Bacone e da Cartesio, allo stesso modo nel Settecento con la fondamentale stagione illuministica che si immette nell’indirizzo di pensiero positivista di Comte e trova, successivamente, un importante crocevia rappresentato dall’Idealismo hegeliano il cui portato filosofico darà più tardi origine a commistioni con le utopie veicolate nell’Ottocento dal socialismo non scientifico. Nel crocevia idealistico-hegeliano avviene la contaminazione di tutti i discorsi filosofico-politici provenienti da altri “luoghi” teorici e delle diverse opzioni culturali al punto tale da agevolmente incorporare nei pur disparati impianti teorici lo sviluppo dello Spirito come concettualità aprioristica assumendone, ciascun impianto, conseguentemente, i caratteri del determinismo, dell’autorealizzazione e della totalità.
Il punto in questione è che tutte queste visioni, da Bacone fino alla “rottura epistemologica” (rif. a Gaston Bachelard e, in particolare, a Louis Althusser) di Marx, nascono e prendono forma grazie a concezioni e categorie introdotte dal superamento dell’oscurantismo medievale, o che hanno comunque in esso le loro radici oppositive [7]. Inoltre, non poche delle risorgenti utopie politiche o sociali dell’epoca moderna con propaggini nella contemporaneità, anch’esse fondate sull’idea di progresso, si basano su idee e concezioni proprie di un idealismo borghese alle quali però, come da tempo è stato osservato (rif. a Romano Guardini ne La fine dell’epoca moderna, 1950), è rimasto solo il guscio esteriore e sono pertanto condannate a esaurirsi o ad impazzire, venendo a mancare, a motivo del materialismo e della secolarizzazione, la linfa spirituale che le sosteneva e che generava con il misticismo logico l’equazione tristemente nota tra “ragione “ e “realtà”.
Guardare l’andamento storico obiettivo delle vicende umane significa fare esperienza del movimentato assetto della “conservazione”, della conoscenza scientifica mediante la diuturna osservazione dell’attitudine alla riconferma del potere classista statuito, del recepire lo storytelling del comando sociale come “conoscenza” delle contraddizioni e non come “l’adattivo ed omologante racconto di un’esperienza”, efficace per manipolare le menti ottenendone la subalternità e passività. La conoscenza operativa genera una possibilità: avanzare alla volta di un effettivo oltre, dirigendosi collettivamente verso un obiettivo di irreversibile liberazione.
Giovanni Dursi
Note
[1] Ci si riferisce all’elemento soggettivo, leggendo lo stesso sviluppo capitalistico, la tecnologia, l’organizzazione del lavoro posto come esito perennemente in divenire dei rapporti di forza tra le classi; pertanto, l’accumulazione non è governata esclusivamente da leggi oggettive, ma riflette il continuo gioco tra iniziativa del capitale e comportamenti dei proletari. Come è stato osservato (intervento di Salvatore Cominu all’incontro sulla “composizione di classe” nel ciclo COMMONWARE di autoformazione di Piacenza, 3 Marzo 2014 ), Sergio Bologna, all’epoca giovane militante e in seguito promotore di una delle principali esperienze intellettuali del marxismo degli anni Settanta, la rivista Primo Maggio, al precedente ciclo di incontri COMMONWARE, ha fornito della composizione di classe la seguente definizione“capire”: «la classe per come si dà “nel processo produttivo e in rapporto con l’organizzazione tecnica, ma anche per cosa pensa, come vive, di quali valori, desideri, aspettative è portatrice”. E certamente l’idea che l’operaio taylor-fordista fosse diverso, per valori, atteggiamento verso il lavoro, l’azienda, la professionalità, dalla vecchia generazione in possesso di un “mestiere”, ha rappresentato la principale intuizione politica dei Quaderni Rossi». Fonte: COMMONWARE – GENERAL INTELLECT IN FORMAZIONE (web site).
[2] Si ritiene adeguata la seguente definizione: “Il sistema delle disuguaglianze strutturali di una società, nei suoi due principali aspetti: quello distributivo, riguardante l’ammontare delle ricompense materiali e simboliche ottenute dagli individui e dai gruppi di una società e quello relazionale, che invece ha a che fare con i rapporti di potere esistenti tra essi” (rif. A. Bagnasco, 1997).
[3] Rif. a “Capitalismo e globalizzazione”, di Nerio Nesi e Ivan Cicconi, Prefazione di Luciano Canfora, biblio-sitografia e contestualizzazione a cura di Giovanni Dursi, Koinè Nuove Edizioni, 2002
[4] In questa sede ci si riferisce alla potenzialità del classico tradeunionìsmo di mobilitazione e di unificazione di diverse soggettività sociali, all’interno della complessa organizzazione della vita pubblica, la cui azione rivendicativa non intacca il carattere di merce dei beni prodotti dal lavoro e delle relazioni di mercato che vengono estesi anche a moneta, terra, ambiente, non più fuori dalla produzione, alle attività di cura e sociali.
[5] Per approfondimenti, si propone la lettura di Mutamenti della struttura di classe in Italia di Alberto Baldissera, il cui testo integrale è in https://journals.openedition.org/qds/1470.
[6] Per capitalismo (termine entrato in vigore solo nei primi decenni del XIX secolo) si intende un insieme di condizioni e relazioni socioeconomiche quali: la proprietà privata dei mezzi di produzione; la libertà di perseguire il profitto, in conseguenza dell’investimento del proprio capitale nel giro degli affari, con criteri di razionalità e quindi di efficienza; l’esistenza di una manodopera che vende al capitalista la propria forza lavoro in cambio di un salario; il comando, da parte del detentore del capitale, sulle modalità del processo produttivo e di accesso dei prodotti stessi al mercato; la propensione all’investimento di nuovi capitali per l’innovazione delle tecnologie; la logica dell’allargamento del mercato come conseguenza del progresso e come presupposto per l’accaparramento di materie prime; il proseguimento e l’allargamento dell’impresa in un contesto globale segnato dalla concorrenza tra imprese. Non vi è dubbio che il capitalismo in quanto sistema assunse una sua fisionomia compiuta tra XVIII e XIX secolo, durante la rivoluzione industriale, trovando la sua più tipica espressione nella fabbrica come luogo di concentrazione delle macchine, del ciclo di lavorazione e degli operai salariati inquadrati in una definita organizzazione del lavoro. Di qui il concetto e la realtà del capitalismo industriale.
[7] Sarebbe sufficiente una lettura dei capitoli centrali delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel (postume, 1837) per rendersene conto: qui la fenomenologia dello Spirito che si realizza nella storia, giungendo alla sua autocoscienza come Assoluto, è spiegata in costante dialogo, quasi in parallelo, con il fine soprannaturale della religione cristiana, tanto il processo di perfezionamento ascetico del singolo, come quello di universale glorificazione di Dio.
FONTE
https://www.mentinfuga.com/